domenica 27 agosto 2017
L’intervento del vescovo Nunzio Galantino, segretario generale della Cei, al 75° Corso di studi della Pro Civitate Christiana ad Assisi
Il vescovo Nunzio Galantino, segretario generale della Cei, fra i ragazzi di un campo profughi in Giordania

Il vescovo Nunzio Galantino, segretario generale della Cei, fra i ragazzi di un campo profughi in Giordania

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1. Giacobbe: «mendicanza» e «fragilità», vie di comunione Introduco questo mio intervento lasciandomi guidare dall’intenso e, a tratti, drammatico racconto che occupa l’intero capitolo 32 del libro della Genesi. Parto precisamente dal resoconto che i messaggeri di Giacobbe gli fanno di ritorno dalla missione da questi voluta presso il fratello Esaù, in cerca di riconciliazione con lui. «… egli stesso – raccontano i messaggeri – sta venendo incontro e ha con sé quattrocento uomini ». « Giacobbe – scrive l’autore biblico – si spaventò molto e si sentì angustiato » ( Gn 32, 7-8a). Sappiamo tutti come e dove finiranno lo spavento e l’angustia di Giacobbe: «… Esaù gli corse incontro, lo abbracciò, gli si gettò al collo, lo baciò e piansero » ( Gn 33,4). Non solo. Più avanti si legge: « Esaù disse: “Partiamo e mettiamoci in viaggio: io camminerò davanti a te” » ( Gn 33,12). Tra lo stato di paura e di angustia di Giacobbe e l’abbraccio tenero e intenso tra lui e suo fratello Esaù, sta tutto il dramma personale e familiare vissuto da Giacobbe. Ma vi è anche la descrizione della lotta drammatica ingaggiata da Giacobbe con Dio « fino allo spuntare dell’aurora » ( Gn 32, 25). Ho scelto di introdurre la mia riflessione con questa icona biblica perché, oggi più che mai mi sembra che il dramma di Giacobbe non sia estraneo alla vita della Chiesa. Alla vita della nostra Chiesa. « Si spaventò molto – si dice di Giacobbe – e si sentì angustiato ». Lo stesso spavento e la stessa angustia che a me capita di vivere personalmente e che mi capita di vedere anche disegnati sul volto e nelle parole di tanti credenti. Con reazioni molto diversificate tra loro. Molto spesso si tratta di reazioni scomposte, nei modi e nelle parole. Non sempre, infatti, il modo di reagire nostro ricalca quello di Giacobbe che gli permise, come si legge ancora nel libro della Genesi (33, 18), di arrivare «sano e salvo alla città di Sichem». È vero, inizialmente, Giacobbe mette in atto soltanto strategie umane. Egli infatti mette in piedi tutta una tattica: regali, divisione degli accampamenti, messaggi di pace. Calcola le probabilità, le possibili reazioni. Cerca insomma di salvare il salvabile. Giacobbe è solo ed è angustiato. Sente la solitudine e il limite del suo tentativo di amare a partire da se stesso e dai suoi mezzi. Davanti a lui sembra aprirsi una sola possibilità: la vendetta del fratello e quindi una cocente sconfitta. Eppure, è proprio lì che Giacobbe fa un’esperienza imprevista: l’esperienza della lotta con Dio. Una lotta che, lo sappiamo, si conclude con una conquista: « Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto! » ( Gn, 32,29). Nella lotta e grazie alla lotta, Giacobbe conquista qualcosa di più grande, di più bello. Non lo conquista grazie alla sua tattica. Dopo la lotta e l’esperienza di “mendicanza” a Penuèl, Giacobbe « alzò gli occhi e vide arrivare Esaù ». Incontrò suo fratello e con lui riprese il cammino, fino a quando Esaù non decise di tornarsene per conto proprio a Seir, mentre Giacobbe partì per Succot. Giacobbe ha combattuto con Dio, ma - cito da una conferenza di padre Mauro Giuseppe Lepori - come «la sua vittoria diventa una ferita, una fragilità, che lo segnerà per sempre, che determinerà, come un’anca slogata, ogni passo dell’esistenza. L’uomo che ha vinto Dio non potrà più fare un solo passo senza ricordarsi, fin nel dolore della carne, che ha lottato col Signore e che la sua vittoria lo ha reso più fragile. Il faccia a faccia di Giacobbe col Signore, cioè la benedizione di Dio, si riflette sui rapporti umani e diventa comunione fraterna. Nel rapporto col Signore, Giacobbe ha ritrovato il rapporto col fratello, ha imparato il rapporto col fratello. Il rapporto con Dio è la verità, anzi la possibilità stessa dei rapporti umani. Uno ritrova il fratello perduto, ritrovando il faccia a faccia col Padre. Nel faccia a faccia col Signore si impara il faccia a faccia con la sua immagine in noi, e questa immagine è comunione, una comunione donata, ricomposta per grazia, gratuita e sorprendente ».

2. Sulla via della comunione: insieme La stessa comunione alla quale non smette di richiamarci papa Francesco. La stessa comunione che con tanta fatica cerchiamo tutti di perseguire. La stessa comunione che vediamo tante volte tradita. È alla comunione, che è insieme “dono” e “compito”, che siamo chiamati. La prima cosa che sento di poter e dover sottolineare, in questo momento storico della nostra Chiesa, è l’invito a rinnovare la nostra fiducia nella diffusa volontà a creare comunione. Vivere nella convinzione che gli altri non la desiderino – e che la loro azione sia pregiudizialmente orientata ad altro e comunque in direzione contraria alla comunione e al Vangelo di Gesù – fa di noi dei presuntosi. Ci trasforma in giudici implacabili degli altri. Unici capaci di identificare e di indicare percorsi di comunione; anche facendo ricorso a linguaggi inaccettabili, carichi di intolleranza. Penso, a questo proposito, che a tutti venga chiesto di ingaggiare, come Giacobbe, una lotta per recuperare uno stile di “mendicanza”. Finché si è fidato solo di se stesso e delle sue tattiche, Giacobbe ha continuato a vivere nella paura e nell’angustia. La lotta che, pur vincitore, lo ha fatto scoprire fragile è stata la via alla comunione e quella che lo ha rimesso in cammino verso orizzonti nuovi e conquiste insperate: « Acquistò – si legge in Gn 33, 19s –. … quella porzione di campagna dove aveva piantato la tenda. Qui eresse un altare e lo chiamò “El, Dio d’Israele” ». Mendicanza e consapevolezza della propria fragilità. Ritengo siano gli atteggiamenti indispensabili da recuperare per leggere quanto sta avvenendo. Non solo nella Chiesa. Oggi bisogna decentrarsi per vedere veramente se stessi, occorre un differente punto di osservazione per leggere le situazioni della Chiesa e degli uomini, per operare un attento discernimento e garantire una testimonianza profetica, oltre che operativa. Non comprendere questo significa restare prigionieri del passato o di un futuro che sta solo nella nostra testa. Tutti. Anche quelli che ritengono di aver avuto, come un cromosoma e in esclusiva, il dono della profezia. Mendicanza, ripeto, e consapevolezza della propria fragilità. Questo è il tempo per andare oltre una semplice ricomprensione teologica del significato e rapporto tra Chiesa locale e universale, oltre la spinosa dicotomia tra doni gerarchici e carismatici, oltre i silenzi di alcuni teologi e pastoralisti; dove questo “oltre” significa avere a cuore la trasformazione missionaria della Chiesa, perché il tempo presente è un’opportunità non un problema. Oggi c’è bisogno di prendere l’iniziativa ( primerear), occorre osare: « Sogno una scelta missionaria capace di trasformare ogni cosa, perché le consuetudini, gli stili, gli orari, il linguaggio e ogni struttura ecclesiale diventino un canale adeguato per l’evangelizzazione del mondo attuale, più che per l’autopreservazione » ( Eg, n. 27). In questa prospettiva di Chiesa, che ricolloca in una maniera diversa le componenti istituzionali e organizzative per essere più agile nell’assolvere al suo fine di annunciare la gioia del Vangelo, l’opzione fondamentale si chiama comunione missionaria. Il Papa è chiaro: dinanzi a una società ferita e stanca, la Chiesa deve tornare sulla strada, in una condizione di mendicanza, deve essere in grado di abitare su quella frontiera esistenziale e geografica dove concretamente si incontra, si abbraccia, si accompagna l’umanità: « Oggi, … sentiamo la sfida di scoprire e trasmettere la “mistica” di vivere insieme, di mescolarci, di incontrarci, di prenderci in braccio, di appoggiarci, di partecipare a questa marea un po’ caotica che può trasformarsi in una vera esperienza di fraternità, in una carovana solidale, in un santo pellegrinaggio... Chiudersi in sé stessi significa assaggiare l’amaro veleno dell’immanenza, e l’umanità avrà la peggio in ogni scelta egoistica che facciamo » ( Eg, n. 87). In questa scelta tutta la Chiesa deve sentirsi coinvolta, riducendo le distanze tra l’amore di Dio e l’amore del prossimo, divenendo umanità aggiunta all’umanità di Gesù Cristo, perché la missione non è « una parte della mia vita, o un ornamento che mi posso togliere, non è un’appendice, o un momento tra i tanti dell’esistenza. È qualcosa che non posso sradicare dal mio essere se non voglio distruggermi. Io sono un missionario su questa terra, e per questo mi trovo in questo mondo. Bisogna riconoscere se stessi come marchiati a fuoco da tale missione di illuminare, benedire, vivificare, sollevare, guarire, liberare » ( Eg, n. 273). Se la comunione è l’architrave dell’ecclesiologia conciliare e dell’antropologia cristiana, è altrettanto evidente che relazionalità e comunione non fanno l’unità se manca l’alterità. Si impone, allora, la domanda: come conciliare comunione e alterità nelle relazioni intra-ecclesiali e sociali? Partiamo dal dato che l’individualismo ha intaccato le radici dell’umano costituendosi come forma della cultura di tanta parte del mondo, dove l’altro è una possibile minaccia prima di essere un uomo, dove la comunione non è un fatto spontaneo in quanto si deve confrontare, se non scontrare, con la paura dell’altro, che patologicamente si tramuta in paura verso ogni forma di alterità, fino al punto da identificare la differenza con la divisione. Giustamente papa Francesco ha scritto: « Il conflitto non può essere ignorato o dissimulato. Dev’essere accettato. Ma se rimaniamo intrappolati in esso, perdiamo la prospettiva, gli orizzonti si limitano e la realtà stessa resta frammentata. Quando ci fermiamo nella congiuntura conflittuale, perdiamo il senso dell’unità profonda della realtà » ( Eg, n. 226). La differenza deve essere mantenuta, perché è buona, dichiarava san Massimo il Confessore; la divisione è una perversione della differenza, ed è cattiva. Quando mistifichiamo il conflitto, o trasformiamo la differenza in divisione attraverso l’emarginazione o il rigetto dell’altro, noi moriamo. L’inferno è l’isolamento dall’altro, non è l’altro; per questo abbiamo bisogno di una nuova nascita, di una nuova cultura, quella dell’umiltà, del disinteresse e della beatitudine, veri tratti dell’umanesimo cristiano e coordinate di vita per la Chiesa italiana, come le ha definite papa Francesco a Firenze. Mendicanza, fragilità, voglia di scommettere; ma anche capacità di conoscere ed apprezzare la differenza. Qualche parola sulla necessità di conoscere e apprezzare la differenza. Anche all’interno della nostra Chiesa. Permettete che mi domandi e vi domandi: quanto si conosce di quello che si sta facendo nella Chiesa italiana in ordine a temi che sono rimbalzati qui, in questi giorni: ad esempio, sulla mobilità umana, sulla trasparenza nella gestione dei beni, sul dialogo? Su questi temi vi sono state e vi sono posizioni chiare di uomini e realtà di Chiesa, regolarmente fatti oggetto di attacchi da parte di media e uomini politici. Mi risulta che pochi, anche lodevolmente impegnati sui temi della pace e dell’accoglienza, si sono fatti sentire. Sui social vedo solo post al vetriolo di cosiddetti conservatori! Ho l’impressione che, per alcuni - gruppi o singoli - l’unico nemico da braccare e al quale impartire lezioni sia la Chiesa istituzionale! Perché, assieme a questa importante azione, non si riesce anche ad accompagnare lo sforzo di conoscere e far conoscere il cammino della Chiesa?

3. Il Convegno ecclesiale di Firenze (9-13 Novembre 2017): le cinque vie Un buon punto di partenza mi sembrano le cinque vie – altrettanti verbi ed esercizi – che hanno scandito i lavori del Convegno ecclesiale di Firenze. Frutto anch’essi della Evangelii gaudium. Vie, verbi ed esercizi capaci di rimettere in moto una Chiesa, la nostra, spesso appesantita da strutture e sovrastrutture rivelatesi paralizzanti. E comunque tali da assorbire eccessive energie, bisognose di essere dirottate altrove e soprattutto in direzioni più prossime al Vangelo. La prima via è quella dell’uscire. Essa chiede innanzitutto di decentrare il modo abituale di guardare alla realtà che ci colloca sempre al centro mentre le cose stanno diversamente. Questa via impegna a guardare le cose da vicino, senza frapporre i nostri pregiudizi consolidati e lasciandosi misurare dalla realtà che è sempre più stimolante delle nostre idee su di essa. Percorrere questa via vuol dire ritrovare il realismo che non ci consegna ad astratti principi né si lascia stanare dalla complessità di una cultura che annaspa, sotto l’impulso di una tecnica e di una economia che snaturano gli esseri umani. Poi c’è la via dell’annunciare, che indica la missione della Chiesa chiamata a dar voce al Vangelo di cui molti hanno perso il gusto, confondendolo con una delle morali e delle ideologie a disposizione nel mercato del sacro. Camminare su questa via significa riproporre il volto autentico di Dio come è testimoniato dalla vicenda di Gesù di Nazareth consentendo quella conoscenza di prima mano che sempre affascina e convince anche i più lontani. Quindi c’è la via dell’abitare che tradisce la scelta di una condivisione non episodica o di facciata, ma una vera adesione alla serie dei problemi sul tappeto con l’impegno a porvi rimedio. Il cattolicesimo italiano si è sempre distinto per il suo carattere popolare, cioè di immersione dentro le fatiche e le sofferenze della gente. Questa strada va percorsa ancora grazie alla capacità della comunità cristiana di essere là dove molti se ne vanno, garantendo presidi di umanità e di socialità laddove anche le istituzioni tendono a battere in ritirata. Non sono solo le parrocchie dislocate nei nuovi quartieri- dormitorio a essere chiamate in causa, ma anche e ancor prima la capacità di pensare alla città. Ciò sarà possibile solo grazie a persone che facciano dell’impegno politico un’occasione di trasformazione al di là di facili populismi e di abituali conservatorismi. Ancora, la via dell’educare ci si para davanti provocandoci a ritrovare la strada maestra di quella formazione delle persone e delle coscienze prima e al di là di altri pur necessari investimenti. La qualità viene sempre prima della quantità e soltanto un’educazione che insegni a pensare criticamente e offra un percorso di maturazione nei valori abilita a un esercizio della libertà che resta la meta della vita umana, anche se spesso contraddetta da sempre nuove e sofisticate contraffazioni. Infine, ci si imbatte nella via del trasfigurareche svela una maniera di guardare alle cose che non è prigioniera dei dati di fatto e si lascia ispirare da un’altra percezione che fa vedere oltre le apparenze. L’attualità di san Francesco non passa forse da questa sua capacità di leggere la vita intera e la stessa morte sotto tale prospettiva?

*segretario generale della Cei, vescovo emerito di Cassano all’Jonio

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