venerdì 7 dicembre 2018
La presenza di donne in ruoli chiave non è pura rivendicazione ma chiama in causa direttamente la dignità
Foto di Christian Gennari / Siciliani

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Chi scrive è una donna che ha attraversato gli anni ’70 convinta delle rivendicazioni del femminismo ugualitarista che sulla scia del decennio precedente misurava la questione femminile sul possesso del proprio corpo, sul diritto alla piena autodeterminazione e sulle uguali possibilità di accesso al lavoro e di trattamento economico.

Oggi la questione la porrei, più correttamente, sul piano della dignità: cosa è degno della donna, talmente degno da valere la pena essere la traiettoria sulla quale investire nella comunità ecclesiale e nella società per i prossimi anni? Per prima cosa ragionerei di comunità ecclesiale: la reciprocità del maschile e del femminile mi pare il punto d’osservazione e il nucleo generativo di ogni riflessione sulla dignità della donna che non può mai essere disgiunta da quella dell’uomo. Perché la comunità ecclesiale è il luogo nel quale impariamo la carità come dono-per-l’altro, è in essa che la questione della dignità della donna si fa più urgente ed anche di valenza esemplare, al modo del sale e del lievito.

In questa chiave di lettura mi piacerebbe che la logica vetero-marxista che legge la questione femminile alla luce dei rapporti di potere, fosse sostituita nella comunità ecclesiale da ciò che è davvero cristiano e quindi veramente umano, ovvero la logica della relazione simmetrica di reciprocità che non lavora tanto sull’uguaglianza come fatto da raggiungere, un’uguaglianza che non sostiene le differenze, quanto invece su ciò che nella comune umanità è il dono specifico del femminile o del maschile per l’altro.

La logica del servizio è lo specifico che come donne e uomini cristiani dobbiamo alla storia. In questo senso credo che nei prossimi anni dovremo affrontare con maggior serietà, in ambito teologico, una seria riflessione, come già si è iniziato, sugli studi di genere alla luce della ricca pagina di Genesi compiendo lo sforzo di intrecciare, per una reciproca purificazione, il teologare al modo maschile e al modo femminile. Un laboratorio permanente, scuola di ascolto e di creatività che possa offrire basi solide per ripensare sotto questo paradigma non tanto il posto della donna della Chiesa, ma una modalità di relazioni intra-ecclesiali rispettose del dono che il femminile e il maschile costituiscono nella specificità cristiana. Ritengo che se nei prossimi anni non modifichiamo il paradigma con cui affrontare la questione donna nella Chiesa, continuando seppur inconsciamente ad applicare le categorie del potere del femminismo egualitarista, la comunità cristiana rischierà di rinchiudersi nei ruoli, nelle funzioni, delle spartizioni di competenze e di insterilirsi anche nel suo essere-per-il-mondo.

Del resto, fermo questo paradigma da cui riposizionarsi, va detto che il “proprio” della donna, e qui il focus si allarga alla società intera, chiede un primo, primo perché basilare, livello di giustizia che consiste nell’approntare quelle strutture di natura politica grazie alle quali la donna possa veramente scegliere il modo di vivere la propria vita familiare e professionale. Non ci illudiamo: la prassi consolidata dell’aut-aut tra lavoro e maternità, tra lavoro e famiglia, se prolungata porterà a far implodere il sistema impresa. Sono convinta che nel corso dei prossimi decenni, la denatalità spinta porterà necessariamente, almeno per calcolo economico, a investire sulla maternità come valore sociale e di sviluppo.

E a proposito di maternità, non posso non pensare a come, se la pratica dell’utero in affitto non verrà messa al bando a livello internazionale, porterà ad un cambiamento radicale della percezione di sé della donna come persona smarrendo l’idea di sé come di unità corporeo-spirituale fin dal primo istante della fecondazione, una unità che affonda le radici nella trascendenza da cui attinge il proprio valore.

Va detto pertanto che l’esito dell’antropologia individualista centrata sull’autodeterminazione, antropologia soggiacente tante lotte femministe è, malgrado le intenzioni delle donne stesse e la loro consapevolezza, il corpo-oggetto, l’oggettificazione della persona ridotta a merce di mercato, l’ultima frontiera dell’alienazione. Ritengo pertanto che la frontiera sulla quale dovremo tenacemente non arretrare ed anzi, avanzare nei prossimi anni sia quella del corpo: un oggetto altro-da-me o manifestazione della totalità personale? Dopo 50 anni dal ’68 siamo tornati alla medesima questione che dobbiamo affrontare con un paradigma differente da quello di allora, anche dentro la Chiesa. In questo è essenziale la riflessione e la prassi della reciprocità personale che solo nella comunità cristiana è possibile illuminare pienamente e che deve tradursi in buone pratiche assunte in sistema culturale e giuridico insieme. Sulla donna dunque, sul suo “corpo” entro l’alleanza col maschile, ci giocheremo l’umano dei prossimi decenni.

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