mercoledì 18 giugno 2025
Parla la presidente dell’Unione mondiale delle organizzazioni femminili cattoliche: «Non vogliamo essere preti o vescovi, ma camminare per mano con i pastori»
Mònica Santamarina

Mònica Santamarina - .

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Sperano le donne, in ogni parte del mondo, dall’Africa al Sudamerica fino alla vecchia Europa. Sperano che un marito, o un padre, smetta di picchiarle. Sperano di poter conciliare la gestione dei figli a casa, e dei genitori anziani, con il lavoro senza cui la famiglia in molti casi non avrebbe di che vivere. Sperano di poter studiare, d’essere assunte e pagate come gli uomini, d’essere ascoltate e di poter dire quello che pensano e quello di cui hanno bisogno nelle riunioni di quartiere, nei consigli di quartiere o nelle assemblee cittadine così come in parrocchia e negli organismi pastorali.

Ed è nel segno della speranza, ciò che è al cuore del Giubileo in corso, che l’Unione mondiale delle organizzazioni femminili cattoliche (Wucwo) ha deciso di organizzare nei giorni scorsi un grande incontro a Roma per rendere protagoniste le donne dentro e fuori dalla Chiesa con le loro storie di tenacia e di protagonismo. A cominciare da quello contagioso della presidente generale dell’associazione, Mónica Santamarina, che da due anni ha assunto l’incarico dopo che la sua predecessora Maria Lia Zervino è stata nominata membro del Dicastero per i vescovi. Messicana, vedova, mamma di due figlie e due figli, nonna di nove nipoti («cinque femmine e quattro maschi a cui insegno dal giorno in cui sono nati la parità di genere»), Monica ha ricoperto diversi ruoli istituzionali, è stata presidente dell’Azione cattolica messicana e membro del comitato editoriale della rivista cattolica più antica del Paese, Acción Femenina, per oltre 25 anni, sempre attenta alle storie delle donne più vulnerabili.

Sono state queste storie di fragilità a convincerla della necessità di un impegno concreto a fianco delle donne?

È proprio così. Ho incontrato donne che sono state vittime per anni di violenze familiari o sessuali, che sono state discriminate o escluse, ho ascoltato le storie terribili di chi è stata costretta a fuggire dal proprio Paese e affrontare l’odissea delle migrazioni. Nonostante tutto questo, ognuna di loro mostrava una fede e un amore incredibili. Il loro esempio mi ha ispirato: ho da subito sentito la chiamata a fare tutto il possibile per aiutarle.




«Subiamo spesso violenza
e conosciamo le fragilità:
per questo possiamo aiutare
le comunità a essere più vicine ai bisognosi»

Che cos’è l’Unione mondiale delle organizzazioni femminili cattoliche?

È un’associazione che raggruppa 100 organizzazioni in tutto il mondo, attive in oltre 50 Paesi di tutti i continenti, per un totale di circa 8 milioni di donne cattoliche di tutte le età rappresentate. La nostra missione è promuovere la partecipazione e la collaborazione delle donne nella società e nella Chiesa, consentendo loro di vivere pienamente la missione di evangelizzazione e di sviluppo umano integrale. In una parola, far sì che le donne si impegnino con la loro responsabilità. Lo facciamo a partire da un programma di azione quadriennale che ha al cuore la difesa della libertà religiosa, il sostegno alla formazione e alla famiglia, la cura del Creato, l’attenzione a migranti e rifugiati, la sinodalità.

E come possono impegnarsi in ruoli di responsabilità, le donne, se non hanno le stesse possibilità degli uomini?

Queste possibilità vanno costruite. Occorre dare a tutte le donne opportunità sufficienti per sviluppare pienamente se stesse e fiorire secondo i loro carismi e i doni che Dio ha loro concesso, a cominciare dall’educazione. È evidente come esista ancora un grande divario nella piena partecipazione e nell’equità dei diritti per le donne, ad ogni livello. Uno dei problemi principali che contribuisce a questo divario è proprio la negazione del diritto allo studio: se le donne non ricevono la stessa informazione, educazione e formazione degli uomini non potranno mai raggiungere lo stesso livello. E poi c’è la ferita della violenza: un’indagine condotta dal nostro Osservatorio mondiale su oltre 10mila donne in 38 Paesi africani ha rivelato che l’80% di loro subisce ancora violenza domestica.

Il divario di cui parla esiste anche nella Chiesa? Il tema è ovviamente molto discusso e il ruolo delle donne nella Chiesa è stato al centro dei lavori sinodali: quale dovrebbe essere?

Non è un segreto che il divario esista. Ovviamente non a tutti i livelli, e non nello stesso modo. Va detto che sono stati fatti grandi passi avanti, specialmente grazie a papa Francesco, che è stato un “campione” di inclusione: ha promosso la partecipazione delle donne attraverso documenti ed esempi concreti, come la nomina dell’ex presidente della Wucwo Maria Lia Zervino insieme ad altre due donne al Dicastero per i vescovi e poi al Segretariato del Sinodo, e questo nonostante le resistenze di molte parti della Chiesa. Tuttavia persiste ancora molto clericalismo, soprattutto a livello locale.

Voi cosa vorreste?

Che le donne fossero ascoltate, innanzitutto. Alla Chiesa serve una pastorale dell’ascolto delle donne: sacerdoti, vescovi, diaconi e catechisti devono essere preparati a sapere come ascoltare le donne, lasciarle parlare e poi saperle indirizzare verso l’aiuto necessario, anche se non sono psicologi o avvocati. Nei seminari c’è una mancanza di formazione riguardo alle donne: i semina-risti, rimanendo chiusi per anni solo con uomini, non sanno come trattare le donne o comprendere i loro problemi. Il risultato è che anche molte decisioni vengono prese senza tener conto delle donne, e questo nonostante proprio da donne sia composta la maggioranza del popolo di Dio.

E poi?

Ascoltare le donne significherebbe aprirsi alla loro visione del mondo, allo sguardo e al racconto che solo loro possono avere della fragilità e della vulnerabilità delle comunità in cui vivono, perché per prime le sperimentano la fragilità e a vulnerabilità in quanto donne. La Chiesa potrebbe e dovrebbe avere un “volto femminile”: per la loro natura le donne sono più esperte nell’essere vicine agli ultimi, sono più empatiche, queste capacità permetterebbero alla Chiesa di uscire da se stessa e a diventare ancora più missionaria, raggiungendo tutte le persone che ne hanno bisogno, specialmente chi è ai margini, gli ultimi. Noi insistiamo spesso sulla necessità di una metanoia, di un cambiamento di cuore nella Chiesa: le donne non vogliono essere sacerdoti o vescovi, ma vogliono camminare “mano nella mano” con i sacerdoti, con i vescovi, con i seminaristi e con il resto del popolo di Dio perché insieme si può fare molto meglio. La Chiesa perde molto se non permette alle donne di partecipare pienamente.

Come vi state impegnando su questo fronte?

Poco alla volta, passo dopo passo, a cominciare dal basso. Stiamo formando le donne alla Scuola per la sinodalità, un’esperienza di ascolto reciproco e condivisione con l’obiettivo di cambiare le strutture e le mentalità proprio a livello locale. Parliamo coi preti, coi seminaristi, con gli uomini, parliamo anche con le donne: il fatto che siano escluse è un problema di cultura, non di donne o di uomini. Spesso, anzi, sono proprio le donne ad avere le idee più conservative. Ci confrontiamo anche coi vescovi nelle diocesi e col Vaticano nei diversi dicasteri. Serve pazienza e serve tempo, ma siamo convinte che un cambiamento è possibile.

Mónica Santamarina Una foto di gruppo con le partecipanti al laboratorio promosso dal Wucwo e svoltosi in Uganda nei mesi scorsi. Al centro c’era il progetto dell’Osservatorio mondiale delle donne

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