mercoledì 24 giugno 2020
Il cardinale oggi lascia Genova dopo 14 anni di episcopato. «Torniamo alla realtà, basta apparenza La Chiesa deve restare vicina alla gente risvegliando la domanda di ogni coscienza: che sarà di me?»
Un ritratto del cardinale Angelo Bagnasco

Un ritratto del cardinale Angelo Bagnasco - Ansa

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Di ogni città si può dire che ha un’anima, un profilo inconfondibile, uno spirito che non ha eguali, e che la sua gente ne è il frutto, nati da una pianta sempre generosa di vita. Di Genova il cardinale Angelo Bagnasco non è solo figlio ma è come il suo riflesso, l’espressione coerente di quel suo cuore forte, essenziale, tutto sostanza. Grande e fedele, capace di vedere lungo ma decisa a realizzare qui e ora.

Dal 2006 pastore della Chiesa che è parte inseparabile di questa singolarissima città sospesa tra mare e montagna, Bagnasco ha interpretato dei genovesi le pieghe più intime, dando voce a un’identità che resta tale e quale sotto il vento della storia, tanto spesso contrario. Genova è città che ha nel suo destino il viaggio: si parte, ma dentro si resta. Ora che siamo ai saluti, con la Messa di oggi che segna il congedo dal ministero di arcivescovo, prevale la consapevolezza lieta di un cammino lungo e intenso tra le mura di casa, in mezzo a gente che ti somiglia. E che adesso vuole solo dirti grazie, di tutto.

Eminenza, come sta vivendo il suo commiato da Genova?
Con grande serenità. Quando non si è cercato nulla si resta liberi, e quando le cose cambiano si è più sereni. Certo non indifferenti. Nel 1998 diventai vescovo, e mi chiesi se avrei potuto portare i compiti che solo immaginavo. Guardavo con ammirazione i confratelli che avevano molti anni di servizio. Oggi, dopo ventidue anni, constato che è possibile solo se ci si affida a Dio giorno per giorno. Se non si è desiderato nulla, il Signore è più largo di benedizioni.

Cosa porta nel cuore di questi anni da arcivescovo della sua città? C’è un episodio, un’immagine che possono riassumerli?
Un episodio che possa esprimere tutto non può esistere: un libro non basterebbe. Quando posso faccio una passeggiata nei vicoli della mia infanzia: molti mi fermano per un saluto, una preghiera, una confidenza. Ogni volta mi meraviglio per la semplicità della gente e la benevolenza verso il vescovo. Quando incontro qualche gruppetto di persone che sembrano diffidenti, mi fermo e attacco discorso: il clima si scioglie e spesso mi offrono il caffè. Di recente, sono passato accanto a un furgone fermo con un giovane autista sconosciuto a bordo: l’ho salutato e lui ha dato una rosa da portare alla Madonna!


«Vivo questo passaggio con serenità: quando non si è cercato nulla
si resta liberi. La presidenza della Cei e del Ccce mi ha allargato l’orizzonte»

Ha vissuto tanti momenti difficili, sempre insieme alla gente. Cos’ha imparato dal suo popolo?
Io sono figlio del popolo e sono diventato padre del mio popolo: le nostre vite si sono intrecciate nelle gioie e nei dolori, di vita e di morte. La gente mi ha manifestato ciò che ho visto nei miei genitori nel dopoguerra: la capacità di sacrificio, la tenacia nelle prove, lo stringere i denti e affrontare a testa bassa le difficoltà. I tempi cambiano, ma questa indole rimane. Anche la vita di fede, oltre ad alcune belle manifestazioni popolari, è vissuta nella concretezza e nell’essenziale della preghiera e della carità. A volte con il classico “mugugno”, ma sempre con partecipazione.

Quali pesi le è costato di più portare, quali prove?
Vorrei che il senso di appartenenza, che si è manifestato soprattutto con la tragedia del Ponte Morandi, crescesse sempre di più: abbiamo toccato con mano che “insieme” non solo è più efficace, ma anche più bello. L’ombra degli individualismi è un grande peso per un vescovo, sia nella comunità cristiana che nella vita sociale. Promuovere la comunione è un grande compito del Pastore: ci vuole fede e fiducia, intelligenza e coraggio senza mai stancarsi. Un’altra prova è quella che conosce ogni genitore quando vede un figlio inquieto e non può fare nulla perché il problema non è fuori ma dentro di lui. A volte è quasi impossibile aiutarlo a rendersi conto di questo. Allora, resta solo la preghiera e l’offerta della sofferenza.

Cosa vorrebbe che restasse del suo tempo a Genova? Per cosa le piacerebbe essere ricordato?
Ho puntato molto sulla comunione della fede e sull’amore alla Chiesa, sulla fraternità dei miei preti. Tutto il resto è conseguenza. Ogni anno è stato indicato un orientamento pastorale, maturato nei diversi consigli di partecipazione, senza dimenticare però la fonte di ogni attività, la vita in Cristo: bisogna credere in Dio e vivere di Dio. Sia il presbiterio che la comunità cristiana devono essere prima di tutto comunità di vita, dove ci si incontra non innanzitutto per fare delle cose ma per aiutarsi a crescere nella fede. È questo il primo e insostituibile modo per essere missionari nel mondo, altrimenti siamo un’agenzia di servizi. E poi, come ho potuto, ho cercato di essere amico dei lavoratori: spero che rimanga nei cuori.


«Il vescovo deve confermare la fede del popolo, non diffondere le sue opinioni o i suoi gusti. Dev’essere
un riflesso di luce senza demagogia»

Quale dev’essere oggi lo stile di un vescovo in una metropoli?
Il volto del vescovo è quello degli Apostoli; deve stare vicino alla sua gente, confermare la fede apostolica, non diffondere le sue opinioni o i suoi gusti, non deve preoccuparsi di inseguire il mondo nella speranza di conquistarlo. Facilmente si resta imbrigliati. Il vescovo, con la sua povera umanità, deve indicare il volto di Dio a partire da Gesù, non da sondaggi e pressioni, consapevole che il migliore alleato del Vangelo non sono la cultura, la politica, le risorse, il potere, ma è l’uomo con il suo desiderio di infinito e di assoluto, di verità e di bene. Ecco perché tutto può cambiare, ma non l’uomo. In un mondo diviso, litigioso e inquieto, il Pastore dev’essere un riflesso di luce senza demagogia. Nonostante le sue opacità personali, è il fondamento visibile della sua Chiesa, ma non deve occupare ogni spazio.

Che terreno trova la Chiesa oggi in una grande città, con tutte le sue risorse, le contraddizioni, i problemi, le diverse culture e religioni?
Alla società complessa la Chiesa deve annunciare il mondo diverso che Gesù chiama Regno di Dio: è come uno spazio dove regna la benevolenza, con ciò che ne consegue. La Chiesa non deve preoccuparsi di se stessa ma delle anime: tutti abbiamo bisogno di Cristo anche quando non lo sappiamo. Cristo è sceso fino a noi non solo per condividere le fatiche umane ma per farci salire fino a Dio, per renderci partecipi della vita divina. Dedicarsi alle opere dimenticando la sorgente vuol dire perdere tutto, sorgente e opere, fede e vita, presente e futuro. La domanda che inquieta o sonnecchia in ogni coscienza è: che sarà di me? Bisogna risvegliare questa domanda perché diventi ricerca e invocazione: lo spazio centrale è questo.

Che città è Genova oggi? Che futuro le si apre?
Genova è una città splendida ed esigente, che non si concede subito ai suoi pretendenti: li guarda con circospezione, li valuta, li pesa nel tempo, e allora apre il suo grande cuore. Contrariamente a certe simpatiche dicerie, Genova è generosa e solidale, ma anche seria e parsimoniosa. La sua storia conosce il pane del duro lavoro per mare e per monti, aperta a ogni giusta innovazione ma attenta a non perdere radici e tradizioni. Se continuerà a guardare il suo mare che spinge lontano, e i suoi monti che spingono verso l’alto, resterà una città concreta ma non materialista e ripiegata.

Da Genova lei è stato anche protagonista della Chiesa italiana. Com’è cambiata, e quale sfida la attende?
La nomina a presidente dei vescovi italiani è stata per me un grande onore e un fulmine a ciel sereno. Sono grato ai miei confratelli perché mi hanno accolto con benevolenza e crescente amicizia. Ho desiderato camminare insieme per affrontare le sfide, e così è stato: il compito educativo, l’annuncio del Vangelo, il cambio di certi costumi, la crisi economica, la piaga della pedofilia, la rinuncia di Benedetto XVI, l’elezione di papa Francesco, la revisione dello Statuto Cei, la Settimana Sociale, il Convegno ecclesiale di Firenze... sono gli eventi più salienti di quegli anni. Tra le sfide di oggi, la più importante resta l’evangelizzazione in una modernità che scricchiola, e che ha disperato bisogno di Dio.

Lei resta presidente del Consiglio delle Conferenze episcopali europee, il Ccee, e non avrà certo tempo di voltarsi indietro. Ma c’è qualcosa che le mancherà?
Il mandato di presidente del Ccee terminerà alla fine del 2021. È un compito che mi ha allargato la visione sul continente e oltre. Anche di questo ringrazio la Provvidenza e i confratelli europei che mi hanno dato fiducia. Quando i rapporti instaurati sono veri, allora non terminano. Credo in questo.

L’esperienza della pandemia ci fa dire che “nulla sarà come prima”. È vero anche per la Chiesa?
Non so prevedere il futuro. Spero che ne usciamo migliorati, più saggi perché più consapevoli di ciò che vale. Abbiamo bisogno di ritornare alla realtà e di uscire dalla cultura dell’apparenza e dell’effimero che ci fa solo perdere tempo, sprecare tempo e fare danni. Forse le conseguenze dureranno ancora, prima che la gente, anche i credenti, tornino alla vita di comunità. La tentazione dello scoraggiamento potrebbe insinuarsi, ma noi preti dobbiamo ricordare che la gente ha bisogno di vedere la solidità della nostra fede.

C’è un passo del Vangelo che oggi sente più vicino?
Tutta la Bibbia è attraversata da una parola che risuona in ogni modo: «Non temere, io sono con te». Questo basta e pacifica.

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