«La riconciliazione può iniziare quando si vede il dolore dell’altro»
Adolfo Ceretti è uno dei pionieri della giustizia riparativa. «Negli incontri tra il reo e la vittima aiutiamo a entrare nelle profondità dell’umano, attraversando la carne della vita»

«In questa società sempre più incattivita c’è bisogno di un nuovo paradigma della giustizia. Di fronte alla delinquenza e al crimine si deve reagire opponendosi al male, ma senza compiere altro male, come argomentava profeticamente il cardinale Martini nei tempi bui del terrorismo. I sistemi penali in fondo razionalizzano la crudeltà, ma nessuna sentenza riesce a saziare la sete di giustizia presente nelle vittime, che non sono “risarcite” dalla punizione perché dalla punizione non ricevono la riparazione della loro dignità infranta. È necessaria un’altra logica, è necessaria una vera rivoluzione culturale, di cui la giustizia riparativa è un utile strumento». Adolfo Ceretti, ordinario di criminologia all’università di Milano Bicocca e docente di mediazione reo-vittima, è uno dei pionieri di questo paradigma che sta lentamente prendendo spazio nel sistema giudiziario italiano, e ha coordinato la commissione di esperti che lo ha introdotto in maniera sistematica nell’ordinamento legislativo con la riforma Cartabia del 2022. Un principio ispirato a una giustizia che cura, una giustizia “mite” e non vendicativa, che ha come fondamento la logica dell’incontro tra le vittime e le persone indicate come autori di reato, aiutate dalla presenza di un mediatore che aiuta ciascuno a confrontarsi con il passato e a mettersi in relazione con l’altro. Il passato non viene rimosso ma piuttosto rivisitato attraverso dialoghi riparativi nei quali ognuno è invitato a entrare in una logica di ricomposizione, per provare a curare una relazione che si è ammalata proprio perché al suo interno è avvenuto un gesto che si configura come un reato.
«Nei colloqui si cerca di gettare un ponte tra la soggettività di chi parla e quella di chi ascolta, nella convinzione che non può iniziare un processo di riconciliazione finché non si riesce a vedere il dolore dell’altro, finché non lo si riconosce. E questo vale non solo per l’autore del reato, per la vittima e per i suoi familiari, ma anche per la comunità civile che è rimasta a sua volta ferita dal reato e che può trarre beneficio dal tentativo di ricomposizione. È una logica che nel mondo ha permesso la pacificazione di conflitti sociali come l’apartheid in Sudafrica o la guerra civile in Colombia, e nel nostro Paese ha contribuito a fare incontrare i responsabili della lotta armata degli anni 70-80 con le loro vittime. Ma al di là di questi esempi eclatanti, la giustizia riparativa è un metodo che prova a sanare le ferite inferte dal reato e che può essere avviato in ogni fase del processo e anche dopo la sentenza. Direi che è una cultura, prima ancora che una forma giuridica. Percorre una strada diversa dal procedimento penale, ma – questo deve essere ben chiaro – non lo sostituisce. È complementare a esso. Per usare due metafore efficaci, potremmo dire che è un filo che ricuce, un balsamo che ristora». L’Italia è il primo Paese che ha varato una disciplina organica su questa materia, l’applicazione non è ancora a regime ma molti passi avanti sono stati compiuti: in ogni distretto di corte d’appello è stato istituito almeno un centro per la giustizia riparativa e sono stati stanziati i fondi per il suo funzionamento, in molte zone sono partiti i corsi di formazione dei mediatori ai quali può accedere chi ha conseguito una laurea triennale e che hanno una durata di 700 ore spalmata su due anni. Tra i magistrati e gli avvocati aumenta la sensibilità sull’argomento, anche se qualcuno sospetta che la giustizia riparativa possa diventare una scorciatoia per ottenere sconti di pena. «Niente di più sbagliato – obietta Ceretti –. Anzitutto va chiarito che non è di per sé uno strumento di clemenza: il giudice ne può tenere conto ma non è obbligato a farlo. E comunque non si deve dimenticare che l’adesione a un programma di giustizia riparativa da parte della persona indicata come autore dell’offesa implica una forte assunzione di responsabilità, significa interpretare un ruolo attivo all’interno di una relazione difficile, quella con la vittima, in cui la persona indicata come autore di reato è chiamata a riconoscere il disvalore del gesto compiuto, ad alzare lo sguardo e a incontrare il volto dell’altro: di fronte a questa sfida vertiginosa gli atteggiamenti strumentali evaporano”.
Don Oreste Benzi amava ripetere che «l’uomo non è il suo errore», Paul Ricoeur metteva in evidenza che ognuno di noi è migliore della cosa peggiore che ha compiuto. La giustizia riparativa è uno strumento adeguato per indagare se c’è lo spazio per un nuovo inizio? «Non possiamo essere inchiodati da un fotogramma ricavato dalla nostra vita. Ricordo la fotografia che ritrae un giovane mentre a Milano in via De Amicis spara alla polizia durante una manifestazione nel 1977. Due persone che quel giorno erano presenti al fatto hanno partecipato ai nostri incontri di giustizia riparativa durante i quali hanno avuto la possibilità di una riflessione e di una narrazione dialogica su quella vicenda e hanno raccontato il percorso che nel tempo li ha portati su posizioni molto lontane da ciò che rappresentava quella fotografia, divenuta una tragica icona degli anni di piombo. Un gesto non può congelare un’esistenza. Ogni vita deve essere guardata come un percorso, non come un’istantanea. In questo senso, l’ergastolo mi sembra uno strumento sbagliato perché ipostatizza una persona, fissandola irrevocabilmente su un gesto che ha compiuto».
Ceretti ha depositato nei suoi libri l’itinerario di tante persone incontrate durante i percorsi di giustizia riparativa: così è accaduto con Il libro dell’incontro che raccoglie i dialoghi tra vittime, familiari delle vittime e responsabili del terrorismo e della lotta armata, con Io volevo ucciderla che esplora il vissuto di una donna che ha bruciato la sorella, con Il diavolo mi accarezza i capelli che offre uno sguardo dietro le quinte di casi eclatanti di cronaca nera. Cosa ha comportato questo confronto vertiginoso con il lato oscuro dell’umanità e nel contempo con una luce che si può accendere avviando un dinamica di cambiamento? Che impronta ha lasciato nella sua persona? «Facendo questo lavoro e immergendomi nelle esistenze di uomini segnati dal dolore ho capito che gli aspetti più importanti della mia vita sono quelli in cui riesco a entrare in relazione con l’altro. Misurarmi con le ferite che si aprono nei cuori delle persone, con l’umiliazione patita o inferta, con le cadute e i tentativi di ripartire, diventa un’occasione che induce a mettermi in discussione, a farmi domande sulla natura dell’uomo, sul bene e sul male, fino a riscoprire la ineludibile dimensione della trascendenza. Nei nostri incontri aiutiamo i partecipanti ad entrare nelle profondità dell’umano, a indagare su pensieri difficili, e lo facciamo attraversando la carne della vita, che diventa anche la nostra carne. Sono momenti che aprono a una comunione con l’alterità ferita e che mi permettono di guardare allo specchio la mia esistenza. In fondo, è un’esperienza di ascesi personale dalla quale anche la mia vita è uscita cambiata».
Con questo articolo si conclude la serie “Vite cambiate”, curata da Giorgio Paolucci, e che durante l’anno giubilare ha raccontato itinerari di ripartenza umana e di riconciliazione avvenuti nelle carceri italiane. Storie che testimoniano la possibilità che l’esistenza prenda una direzione nuova anche negli ambienti più difficili. Tutti gli articoli a questo link: www.avvenire.it/tag/vite-cambiate_5127.
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