lunedì 22 agosto 2022
Il gesuita traccia un bilancio della sua missione di prete e giornalista. «È stato un autentico privilegio per me raccontare da vicino i pontificati di Wojtyla, Ratzinger e Bergoglio»
Padre Federico Lombardi durante una conferenza stampa

Padre Federico Lombardi durante una conferenza stampa - Ansa

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Si considera e si descrive come un “semplice” gesuita, – lui che per formazione è un matematico di professione – «mi sono laureato in questa disciplina nel 1969 all’università di Torino», che per un strano disegno del destino, ha speso buona parte della sua lunga esistenza di sacerdote come «uomo della comunicazione vaticana» al servizio di ben tre Papi: Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Francesco.

È il ritratto che più si staglia per comprendere ma anche per definire una complessa figura affabile ma per certi versi schiva– tipica forse di chi è piemontese – come quella di padre Federico Lombardi dal 2016 scrittore emerito de La Civiltà Cattolica e presidente della Fondazione vaticana Joseph Ratzinger-Benedetto XVI.

Il prossimo 29 agosto padre Federico taglierà il traguardo degli 80 anni di vita: essendo nato, in quel giorno, a Saluzzo piccola e molto sabauda città del Cuneese . «Raggiungere questa meta – è la confidenza del religioso che ci accoglie in una calda e assolata giornata di agosto a Villa Malta a Roma, sede della prestigiosa rivista La Civiltà Cattolica – significa soprattutto tracciare un bilancio sulla propria vita, chiedersi che cosa, da anziano, con i propri ricordi ma anche limiti e testimonianze si può trasmettere alle nuove generazioni. A chi verrà dopo di noi».

Ma per padre Lombardi questo anniversario simboleggia qualcosa di più. «Vivo questo mio compleanno – prosegue – come l’anticipo di una gioia maggiore: quello che sperimenterò, a giorni, il mio cinquantesimo di Messa che avvenne il 2 settembre del 1972. Il fatto di essere stato ordinato prete in Germania mentre concludevo i miei studi in teologia a Francoforte è stato il mio “battesimo del fuoco” come sacerdote. Uno dei privilegi più belli è stato quello di portare l’annuncio della fede, in quell’anno così speciale per me, ai tanti immigrati italiani in un ambiente popolare».

Padre Federico Lombardi appartiene a una famiglia importante del Piemonte che affonda le sue radici nel cattolicesimo sociale: suoi zii sono stati il gesuita, uomo di fiducia di Pio XII, famoso per le sue prediche negli anni ’50 e chiamato per questo il “microfono di Dio” Riccardo e il noto giurista Gabrio che fu, tra le anime principali, nel 1974 della battaglia del referendum per l’abrogazione della legge sul divorzio; sua nonna Emma Vallauri è stata la fondatrice dell’Unione donne dell’Azione cattolica italiana.

Padre Lombardi discute con papa Francesco

Padre Lombardi discute con papa Francesco - Osservatore/Vatican News

Quanto ha influito nella sua vocazione di gesuita essere il nipote di Riccardo Lombardi?
Avere uno zio gesuita in famiglia mi ha permesso di capire questo Ordine meglio perché mi era già familiare per il suo stile di apostolato. Mio zio lo vedevo poco e ricordo la sua proverbiale itineranza per le sue conferenze. Ma come nel caso di Carlo Maria Martini a spingermi ad entrare nella Compagnia fu soprattutto il contatto diretto con i padri della mia scuola il Sociale di Torino»

Nel 1973 entra nel collegio degli scrittori de “La Civiltà Cattolica” e nel 1977 ne diventa vice direttore. Che ricordi conserva di quegli anni?
È stato un periodo carico di entusiasmo, durato circa 11 anni fino al 1984, e di rinnovamento nel solco delle istanze conciliari grazie alla guida carismatica di Bartolomeo Sorge: un uomo di grande cultura e di intensa vita spirituale capace di stare ore e ore di fronte al tabernacolo. Con lui ho avuto l’emozione, il 14 giugno 1975, di consegnare il numero 3mila della rivista nelle mani di Paolo VI. Ricordo ancora la commozione di padre Sorge di fronte a papa Montini. E in un certo senso il 24 febbraio 2017 quando l’attuale direttore della rivista padre Antonio Spadaro ha donato a papa Francesco il numero 4mila del nostro quindicinale mi è sembrato di rivivere la stessa trepidazione e momento storico vissuto nel 1975.

Nel 1984 per sei anni fino al 1990 si trova a guidare come superiore provinciale i gesuiti italiani… Che cosa significò quell’esperienza?
Quegli anni mi hanno consentito di conoscere nel profondo la realtà della Compagnia di Gesù in Italia, composta da circa 1.200 religiosi, sparsi in 90 case. Tra le esperienze più belle vi è stata la visita alle missioni dei nostri padri in terre difficili come il Madagascar o il Brasile. Da provinciale fui io a suggerire a padre Sorge, dopo l’esperienza de La Civiltà Cattolica ad andare a Palermo per innestare una nuova linfa all’Istituto di formazione politica Pedro Arrupe. È stata credo una scommessa vinta.

Nel 1990 diventa veramente «uomo della comunicazione della Santa Sede»: viene infatti destinato dai superiori alla Radio Vaticana prima come direttore dei programmi (1990-2005) poi direttore generale (2005-2016) e infine alla guida del Centro televisivo vaticano, il Ctv (2001-2013). Che bilancio si sente di tracciare di quel periodo?
Forse si è trattato di uno dei momenti più fecondi della mia carriera a servizio della Sede Apostolica. Che un gesuita della Civiltà Cattolica venisse “dirottato” alla Radio Vaticana non era una novità. Prima di me era capitato a due illustri confratelli come Giacomo Martegani e Roberto Tucci, divenuto poi cardinale. Mi è rimasto di quel periodo il contatto con tutto il personale, spesso poliglotta, la conoscenza delle edizioni in varie lingue delle trasmissioni radiofoniche e poi il poter partecipare ai Viaggi apostolici a metà del Pontificato di Giovanni Paolo II: mi alternavo in questo ruolo con il mio allora superiore padre Pasquale Borgomeo.

Un’esperienza del tutto diversa fu quella del Ctv dove ha seguito da vicino la fine del pontificato di Giovanni Paolo II.
Per me è stato un privilegio essere il direttore del Centro televisivo vaticano in quel momento storico, il 2005, perché grazie a quei filmati esclusivi abbiamo potuto raccontare in diretta al grande pubblico la sofferenza, agonia e la morte di un papa santo come Karol Wojtyla. Fu un’ostensione quasi pubblica del Santo Padre per mostrare al mondo non solo la sua sofferenza ma il suo affidarsi al Signore.

L’11 luglio 2006 arriva la nomina a direttore della Sala Stampa della Santa Sede. Un incarico che manterrà fino al 2016 con papa Bergoglio.
Ancora oggi non so spiegarmi perché fui scelto soprattutto dovendo subentrare a una figura molto autorevole come Joaquín Navarro-Valls. Spesso si immagina il direttore della Sala Stampa come il “portavoce” del Papa ma non è così. Non si deve solo presentare a tutti i media del mondo chi è il Vescovo di Roma ma spesso in quel ruolo devi raccontare altri dettagli come funziona, per esempio, la complessa macchina della Curia romana… Per me quel 2006 rappresentò, in verità, quasi un nuovo inizio: un apprendistato per imparare a fare il “portavoce”.

Un rapporto del tutto particolare è stato quello che ha vissuto accanto Benedetto XVI. Ci può raccontare il perché?
In un certo senso l’ho accompagnato per quasi tutto il suo Pontificato dal 2006 fino alla rinuncia al ministero petrino nel febbraio del 2013. Dietro a una certa scorza di timidità dovuta al fatto di essere un uomo di studio papa Ratzinger è un uomo non solo affabile ma che mi ha messo sempre a mio agio. Lo definirei come un papa teologo con le idee molto chiare. La sua rinuncia alla Cattedra petrina non è stata per me una sorpresa inaspettata. Già nel 2010 nel famoso libro-intervista “Luce nel mondo” con Peter Seewald Benedetto aveva fatto cenno all’ipotesi della rinuncia soprattutto per motivi di salute e di non poter svolgere al meglio la sua missione pubblica di successore di Pietro. Dopo il viaggio in Libano nel settembre 2012, già 85 enne, da lui condotto in modo egregio, aveva già compreso che le forze e le energie di un tempo erano venute meno. Quello che ha colpito tutti è stata la serenità e il distacco della sua rinuncia.

Un Pontefice con cui era solito parlare in tedesco o in italiano.
Anche qui è sempre subentrata una grande virtù di Ratzinger: l’umiltà. Nei colloqui con me ha sempre privilegiato parlare in italiano e non in tedesco. D’altronde egli parla la nostra lingua con maggiore familiarità di quanto io padroneggi la sua. Solo in circostanze particolari quando ci siamo trovati a interloquire con il suo segretario personale, oggi arcivescovo, monsignor Georg Gänswein preferiva l’uso della sua lingua madre. E a conclusione di questi colloqui a tre aveva la finezza di ripetere in italiano le stesse cose. E divertita era la mia replica: “Santo Padre non è necessaria la traduzione capisco la sua lingua avendola studiata tanti anni…”».

Quando ha incontrato l’ultima volta il Papa emerito?
Il 7 maggio scorso per aggiornarlo delle novità del Premio e della Fondazione a lui dedicata. Parla con un filo di voce e per manifestare il suo reale pensiero è aiutato in questa mediazione dal suo segretario l’arcivescovo Georg Gänswein. Conserva ancora una lucidità mentale formidabile. Ha una memoria e capacità di collegamento veramente notevole per la sua età. Tutto questo lo si evince dalla qualità delle sue domande e delle sue risposte. Cosa mi ha lasciato questo ultimo incontro? L’idea di un uomo che, nonostante la sua fragilità, trasmette serenità, grazie credo anche a un’intensa vita fatta di preghiera. Si congeda sempre regalandoti un bellissimo sorriso e si sente pronto all’incontro definitivo con il Signore.

Nel 2013 si è trovato ad essere il portavoce di papa Francesco, suo confratello, e primo Pontefice gesuita. Che istantanee conserva di quei tre anni ?
Vidi per la prima volta nel 1983 il mio confratello Jorge Mario Bergoglio in occasione della XXXIII Congregazione generale dei gesuiti a Roma nel 1983 che portò all’elezione del preposito della Compagnia Peter Hans Kolvenbach, un uomo dal grande rigore ascetico, Ma fu un incontro formale. La vera conoscenza personale è avvenuta con la sua elezione al Soglio di Pietro nel 2013. È stata per me una grazia vivere con lui l’inizio e quindi la parte forse più programmatica del suo pontificato: accompagnarlo nei primi Viaggi apostolici e soprattutto scoprire la sua spontaneità ed empatia che ha con ogni persona che lo incontra e si avvicina a lui. Ad accomunarmi a lui è il linguaggio della spiritualità ignaziana e la conoscenza e pratica degli Esercizi Spirituali. Parole come discernimento o la sua idea di portare l’annuncio del Vangelo nel mondo di oggi e nel segno dei tempi fanno parte di un linguaggio tipico di noi gesuiti. I doni più belli dei tre anni trascorsi accanto al Papa sono stati quelli di scoprire la sua libertà nello spirito (basti pensare ai suoi gesti spontanei come le telefonate) e la ventata di freschezza che ha portato dentro e fuori dalla Chiesa.

Padre Federico alla soglia dei suoi 80 anni come trascorre il resto delle sue giornate?
Vivendo da semplice sacerdote e da superiore della comunità dei gesuiti de La Civiltà Cattolica. Se posso scrivo qualche articolo, spesso di vita ecclesiale, per la rivista. Proprio come faceva finché ha potuto il compianto e più longevo direttore della rivista padre GianPaolo Salvini. Ora sono riuscito ad accarezzare un mio antico sogno: sono tra i curatori della positio per l’iter della causa di beatificazione di un gesuita a me molto caro e uomo del dialogo con la Cina: il maceratese Matteo Ricci (1552-1610). Vivo con speranza e fede il mio ministero e guardando senza nostalgia al glorioso passato del mio Ordine, un po’ come era solito fare il cardinal Martini nella parabola finale della sua esistenza, ma nutrendo sempre fiducia nel futuro della Chiesa. E di chi verrà dopo di me.

Padre Lombardi con Benedetto XVI

Padre Lombardi con Benedetto XVI - Ansa

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