mercoledì 10 aprile 2024
Esce una nuova edizione della biografia del prete piacentino fucilato, dopo false accuse, dai fascisti il 9 febbbraio 1945. E si prospetta l'apertura di una causa di beatificazione per martirio
Don Giuseppe Borea

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«Don Borea deve essere fucilato per dare una salutare lezione ai preti piacentini i quali, come mi risulta, sono tutti schierati contro la Repubblica sociale fascista». È l’8 febbraio 1945. Don Luigi Bottazzi è stato inviato dal vescovo Ersilio Menzani al Comando regionale militare per parlare con il generale De Logu. Lo scopo è chiedergli di inoltrare al Duce la domanda di grazia per il confratello don Giuseppe Borea, parroco di Obolo in Val d’Arda in provincia di Piacenza e cappellano partigiano, arrestato dalla Guardia nazionale della Repubblica sociale e condannato a morte con un carico di accuse infamanti: spionaggio, ricettazione, omicidi aggravati da sevizie ai cadaveri, stupro della ragazza di servizio e perfino tentato incesto nei confronti della sorella. La replica di De Logu è netta. Il 9 febbraio don Giuseppe viene fucilato: «Perdono di cuore coloro che mi hanno fatto tanto male e anche voi che state per sparare».

Quasi ottant’anni dopo, quella lapidaria sentenza potrebbe fare la differenza nel riconoscere la morte di don Borea come martirio. Lo ha evidenziato il vescovo di Piacenza-Bobbio, Adriano Cevolotto, alla presentazione della seconda edizione del libro "Quando l’amore è più forte dell’odio", scritto da Lucia Romiti per l’editrice Il Duomo, che raccoglie nuove testimonianze e documenti in vista della possibile apertura del processo di beatificazione (se ne parlerà anche a livello di Conferenza episcopale dell’Emilia-Romagna, alla luce di altre analoghe cause relative a preti uccisi nello stesso periodo). Motore del lavoro di ricerca è il gruppo nato per diffondere la conoscenza di questo parroco di montagna che – alla stregua del beato don Fornasini nel Bolognese e del beato don Beotti a Sidolo di Bardi, provincia di Parma ma diocesi di Piacenza-Bobbio – ha vissuto una Resistenza «nella fede e della fede». Attaccato, prima che fisicamente, nella sua reputazione di sacerdote, ci consegna – ha ricordato Cevolotto – «una lezione di grande attualità: di fronte alla violenza ingiusta, la mitezza del perdono diventa la forza che può spezzare la catena dell’odio».

Lui che era nato il 4 luglio 1910, giorno del patrono Antonino, martire, il 26 settembre del ’37 fa l’ingresso come parroco nella poverissima Obolo, frazione di Gropparello: restaura la chiesa, trasforma la stalla in sala per riunioni, fa arrivare l’elettricità e l’acqua corrente, crea i gruppi giovanili di Azione Cattolica. Dopo l’armistizio dell’8 settembre ’43 e la nascita della Repubblica Sociale Italiana, la Val d’Arda diventa teatro della Resistenza. Don Giuseppe è cappellano della Divisione guidata da Giuseppe Prati, non guarda però al colore politico. «Aiutava anche i fascisti, veniva a parlare con i nostri capi per cercare di evitare le condanne a morte. Gli ho visto compiere tanti gesti di solidarietà e di pietà cristiana», attesta nel libro l’ex partigiano Ugo Magnaschi. Lo conferma la sorella Rambalda, centenaria, allora staffetta partigiana. «Era una persona che si dava a tutti. Ha salvato la vita a mio marito: lo ha nascosto dietro la statua della Madonna, in chiesa, finché il pericolo non è passato». Non esitò ad andare fino a Morfasso per assicurare la comunione a un morente, la cui casa era bivacco dei tedeschi: nascondeva l’ostia sotto la camicia. Giuseppe Filippa conobbe don Borea a 15 anni, di passaggio ad Obolo con altri partigiani. «Vedendomi così giovane, mi ha fatto una carezza e benedetto. Sono certissimo che la sua benedizione mi ha aiutato a sopravvivere e ad affrontare la vita. Per me era un santo in terra».



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