sabato 22 novembre 2008
Il cardinale Arinze esamina i drammi endemici del Continente e i motivi di speranza: il confronto con l'islam e le sette, il ritorno alle pratiche delle religioni tradizionali.
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«Ho accolto con gioia e soddisfazione la notizia che il Santo Padre visiterà nel prossimo marzo il Camerun e l’Angola. Credo che tutta l’Africa, cattolica e non, saluterà con riconoscenza il suo arrivo. E speriamo che sarà molto attenta a quello che ci vorrà dire». Il cardinale Francis Arinze, dal 2002 prefetto della Congregazione per il culto divino, è visibilmente lieto del fatto che Benedetto XVI, dopo aver toccato tutti gli altri continenti, dedicherà il suo prossimo viaggio internazionale a quello che pure registra la più impetuosa crescita di fedeli e di vocazioni dell’orbe cattolico. Il porporato nigeriano è, per così dire, il "più alto in grado" tra gli africani della Curia romana. Nominato da Paolo VI vescovo coadiutore nel 1965 – partecipò all’ultima sessione del Concilio – e arcivescovo di Onitsha nel 1967, Giovanni Paolo II lo ha convocato a Roma nel 1984 a presiedere il pontificio Consiglio per il dialogo inter-religioso e lo ha creato cardinale nel 1985. Papa Ratzinger il 25 aprile del 2005 lo ha chiamato a succedergli come cardinale-vescovo del titolo della Chiesa suburbicaria di Velletri-Segni. Incontriamo il cardinale Arinze alla vigilia di un importante anniversario: i cinquant’anni di sacerdozio. Venne ordinato infatti il 23 novembre 1958 nella chiesa del pontificio Collegio Urbano di Propaganda Fide a Roma.Eminenza, il 2009 potrebbe essere indicato come l’anno dell’Africa per la Chiesa cattolica. Il viaggio del Papa infatti si inserisce nel processo di preparazione del Sinodo continentale, che si celebrerà a Roma dal 4 al 25 ottobre. Inoltre nei giorni precedenti, dal 27 settembre al 3 ottobre, si riunirà sempre nell’Urbe il Simposio delle Conferenze episcopali dell’Africa e del Madagascar (Secam)…Il tempo è di Dio e ogni anno dovrebbe essere l’anno di ogni continente. È indubbio però che gli avvenimenti da lei segnalati saranno particolarmente significativi per la nostra Africa. La riunione del Secam è importante. Si tratta del corrispettivo - meno conosciuto - del Ccee europeo o del Celam latinoamericano. Si è discusso se era meglio celebrare questo Simposio in Africa o qui a Roma. Poi - giustamente - si è preferito metterlo in agenda, subito prima del Sinodo, qui nell’Urbe. E con questa scelta la Chiesa cattolica che è in Africa ha voluto anche ribadire il suo legame affettivo ed effettivo con Roma.Le dispiace un po’ che il Papa non abbia scelto la Nigeria come tappa del suo prossimo viaggio?Se avesse scelto il mio Paese natale sarei stato contento. Ha scelto il Camerun e l’Angola e sono contento lo stesso. Quello che è importante è che il Papa va in Africa e che ci va per presentare l’Instrumentum Laboris del Sinodo. Un Sinodo che Giovanni Paolo II ha voluto indire e che Benedetto XVI ha voluto confermare. E sarà il secondo Sinodo africano.Il primo risale al 1994…Infatti. E trattò cinque argomenti sull’evangelizzazione. Questa volta invece i vescovi africani hanno voluto mettere a tema la questione della giustizia e della pace. E il Papa ha approvato questa scelta.Questo significa che l’Africa ha oggi particolarmente bisogno di giustizia e pace.Certamente. Ma questo non vuol dire che tutto in Africa vada male. Molti occidentali si rendono conto del nostro continente solo se vi accade qualche tragedia. Tanto che quando sui mass media non vedo notizie da lì, penso: no news, good news. Invece ci sono buone notizie, che però non fanno notizia.A cosa si riferisce?Penso alla transizione dall’apartheid in Sudafrica, che si è svolto, senza vendette e spargimento di sangue. Non era scontato. Poi al fatto che anche in Africa ci sono dei casi di alternanza democratica al potere. Non sempre purtroppo, ma in Malawi e in Ghana è avvenuto. Per non parlare poi di quanto accaduto in Liberia, dove una donna, ben preparata politicamente e culturalmente, ha sbaragliato tutti gli avversari ed è stata eletta presidente. E poi il modo con cui il Kenya, alcuni mesi fa, è stato aiutato dai vicini, e specialmente da Kofi Annan - segretario generale merito dell’Onu -, a superare la crisi politica che rischiava di farlo precipitare in una guerra civile. Tutti segnali positivi.Non le sembra di dare una visione troppo idilliaca dell’Africa? I problemi non mancano…Non sono ingenuo, ci stavo arrivando. Accanto alle luci ci sono le ombre, che sono particolarmente cupe. Penso alla Repubblica democratica del Congo, vittima della cupidigia di forze nazionali, e anche internazionali, verso le sue materie prime. E poi il Sudan e il Darfur. Speriamo che santa Giuseppina Bakhita che viene proprio dal Darfur protegga quella terra! E poi la regione dei Grandi Laghi, bellissima ma tribolata dagli etnicismi esasperati. E poi la mia Nigeria, con il petrolio del delta del fiume che da benedizione a volte si trasforma in maledizione. La Chiesa non può non fare qualcosa per questo. E quando dico la Chiesa non penso solo ai vescovi ma anche ai laici.Al recente Sinodo dei vescovi si sono levate voci su alcune questioni che riguardano particolarmente la Chiesa in Africa, come il confronto con l’islam, il problema delle sette e il ritorno delle religioni tradizionali…Si tratta di questioni reali, ma non vanno esagerate. In Africa sub-sahariana i rapporti con l’islam sono migliori rispetto ai Paesi che si affacciano sul Mediterraneo e sul Mar Rosso. Senza contare poi che a volte i conflitti tra i cristiani e musulmani sono determinati più da rivalità politiche, commerciali ed economiche che da questioni squisitamente religiose. Un buon cristiano e un buon musulmano non uccidono in nome di Dio.E il problema delle sette?Indubbiamente è un fenomeno diffuso. Portato avanti più da businessmen in cerca di affari che da pastori zelanti di conquistare anime a Gesù. E’ un fenomeno che guadagna terreno laddove i cattolici non sono ben formati e dove c’è carenza di clero. Ma questo fenomeno, ahimé, non riguarda l’Africa in sé. Basta vedere quello che sta succedendo in Brasile, o nelle Filippine. Senza contare che anche nell’Europa ricca e tecnologicamente avanzata la New Age ha fatto non pochi proseliti. Già nel 1991 ci fu un Concistoro straordinario in cui il Sacro Collegio fu chiamato a riflettere su questo fenomeno. E fra gli antidoti proposti ci fu quello di curare con più attenzione le liturgie. Un invito valido ancora oggi.Cosa pensa della denuncia del fatto che non pochi cattolici africani ritornano alle pratiche delle religioni tradizionali?La cultura di un popolo non può essere cancellata in poco tempo. E poi la religiosità tradizionale africana più che un problema la vedrei come una risorsa. Il rispetto per gli anziani – non si mandano i genitori in ospizio per poter andare in discoteca – e l’accoglienza della vita – i bambini sono visti come una benedizione e non come un problema da evitare –, il rispetto per il sacro, il senso della comunità, la credenza nella trascendenza di Dio. Sono tutti atteggiamenti positivi radicati nel popolo africano. Mio padre, quando ero seminarista e lui non era ancora cristiano, mi guardava con grande rispetto perché mi considerava una persona consacrata. Certo, in Africa ci sono stati politici sciovinisti che volevano recuperare le religioni africane per propri fini, ma questo funzionava all’epoca della fine del colonialismo, non tanto oggi. E poi ci possono essere delle ricadute di superstizione, è comprensibile… la nostra storia cristiana è ancora giovane. In Europa, dopo secoli e secoli di cristianità, sui voli di linea non vedo ancora la sedia n. 13…L’Africa è il continente con il più alto tasso di crescita di fedeli e di vocazioni al sacerdozio. Una ricchezza per la Chiesa, ma non senza qualche problema, come l’osservanza del celibato o il rischio di carrierismi…È un fenomeno che ci riempie di gioia ma anche di responsabilità. Avere trenta seminaristi non significa averne trecento. In Nigeria c’è un seminario con oltre quattrocento candidati. Una messe così ampia ci deve obbligare ad un particolare discernimento. Un ruolo particolare debbono averlo i parroci, ma anche le donne cattoliche, che a volte sanno di più degli altri e si accorgono prima di altri e dello stesso vescovo se ci sono problemi… Certo le famiglie numerose facilitano la nascita delle vocazioni. Detto questo, sappiamo che la natura umana è ferita dal peccato originale, anche un apostolo su dodici tradì, e noi oggi non possiamo pretendere di essere migliori dei primi seguaci di Gesù. Quanto al celibato e alla chiamata alla povertà evangelica, sono sfide in tutti i continenti. Il clero africano risponde con generosità, senza escludere che qualcuno venga meno.Eminenza, un’ultima domanda. Da cardinale africano come valuta l’elezione di un figlio di un keniano come nuovo presidente degli Stati Uniti?È un fatto indubbiamente storico, guardando il passato di quel grande Paese. Gli americani hanno votato una persona, senza guardare al colore della pelle. E questo è positivo, anche se ciò non indica approvazione di ogni elemento del programma di Obama. Spero che il nuovo presidente guardi con benevolenza al continente da cui proveniva il suo papà.
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