giovedì 12 novembre 2015
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Alla Chiesa italiana il messaggio del Papa è arrivato chiaro e forte. Lo prova quel che dicono i vescovi conversando nelle pause dei lavori in assemblea e nei gruppi quando gli si chiede che strada va imboccata adesso. Se tutti si dicono impressionati dalle parole di Francesco, con altrettanta unanimità scelgono tra i concetti ascoltati lo stile della sinodalità, quasi una premessa. «Dobbiamo fare un impegnativo esame di coscienza sui rapporti tra cristianesimo e società – riflette l’arcivescovo di Cagliari, Arrigo Miglio – vincendo la tentazione di dire che quanto ci prospetta il Papa “in fondo lo facevamo già”: l’indicazione è invece molto chiara, e d è quella di una testimonianza ispirata alla centralità di Cristo lavorando a tutti i livelli sulla Evangelii gaudium ». «Bisogna stare ancora di più in mezzo alla gente – è il pensiero del vescovo di Palestrina, Domenico Sigalini –: da 19 mesi vivo ospite di chi mi apre la porta nei paesi della diocesi, un’esperienza che mi sta insegnando ad ascoltare, a mettermi dalla parte di tutti, anche di quelli con i quali credo di non aver nulla da condividere. Tutti hanno bisogno di qualcuno che ascolti, e noi dobbiamo riprendere contatto con chi ci ha persi di vista». I vescovi contestano la lettura di chi ha visto nelle parole del Papa una reprimenda da preside severo. «Li lasci dire, la verità è che è stata una boccata d’aria, sensazione che ho condiviso con tanti miei confratelli – sorride il vescovo pugliese di Lucera-Troia, Domenico Cornacchia –. La nostra è una Chiesa che cammina, che non si accontenta. E che oggi si vede proporre un orizzonte grande di impegno, anzitutto nell’educazione dei più giovani. Oggi bisogna accompagnare: è indubbio che noi vescovi dobbiamo spendere più tempo nella “liturgia del quotidiano”, della strada, chiudendo lo spazio che si è aperto tra Chiesa gerarchica e laicato». Simone Giusti, vescovo di Livorno, ricorre a una battuta. «Cambiare paradigma pastorale oggi significa uscire da Trento, cioè da una preoccupazione anzitutto sacramentale e dottrinale, puntando sulle domande e le inquietudini.  L’esempio ce lo offre il Papa, che è un grande “provocatore”: scrive encicliche con i suoi gesti. Ecco: oggi serve una Chiesa che sia un segno, che si avvicini alla gente dalla parte in cui è più sensibile, quella affettiva: le persone cercano amore, e cercano una Chiesa che mostri di volergli bene anzitutto fermandosi ad ascoltarle». Di una «chiamata alla responsabilità» parla l’arcivescovo di Sassari, Paolo Atzei: «Il Papa parla con grande chiarezza ma non ci dice cosa dobbiamo fare, rispetta il cammino delle nostre Chiese mentre le incoraggia a darsi da fare. Il cattolicesimo italiano ha sempre dato un contributo decisivo alla civilizzazione del Paese, adesso ci viene chiesto di saper ascoltare e di pensare il futuro». «Quella del Papa è stata una sferzata, sì – commenta il vescovo di Jesi, Gerardo Rocconi, chiosando il polemico titolo di un quotidiano – ma di quelle che non fanno male, anzi. Qui al Convegno siamo molto felici delle parole che ci siamo sentiti dire da Francesco: perché le abbiamo ascoltate come le parole di Gesù che esorta e chiede di non accontentarci. Stiamo facendo un’esperienza di Chiesa bella e profonda, e impariamo un metodo che dovremo trasmettere alla nostra gente». Anche Claudio Maniago, vescovo di Castellaneta, lo «schiaffo del Papa» non l’ha proprio sentito. «Ci ha dato speranza, che è ciò di cui avevamo bisogno. Il metodo sinodale è la strada, dicendoci tutto tra di noi, anche quello che non va. Abbiamo in tasca i due spiccioli della vedova, impariamo a spenderli accogliendo la realtà così com’è». Il verbo che si aggiunge ai cinque del Convegno è “camminare”. «La cosa più bella è che il Papa cammina insieme a noi – dice il vescovo di Piacenza-Bobbio, Gianni Ambrosio – e ci dice di accettare la complessità di oggi avvicinandoci alla gente col tesoro delle beatitudini da vivere nella quotidianità. La nostra è e deve restare una Chiesa con lo stile della popolarità, capace però di esprimere più gioia nell’accogliere la vita come si presenta». L’esperienza di Firenze è «liberatoria», come la definisce Antonello Mura, vescovo di Lanusei. «Occorre liberarsi da alcune ossessioni, anche vissute in buona fede – spiega –, anzitutto per l’immagine e il potere. Penso alle piccole sicurezze dell’apparire, dell’essere sempre presenti, del voler sempre intervenire, quando invece occorre essere liberi e trasparenti anche a rischio di pagarla in termini di consenso. Ma l’irrilevanza è solo apparente, perché parlerà il Vangelo».
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