venerdì 16 aprile 2021
Il racconto in un libro scritto da Andrea Riccardi e Marco Impagliazzo per la San Paolo
I Papi e la Chiesa di Roma nell’azione diocesana
COMMENTA E CONDIVIDI

Benedetto Croce racconta che lo storico tedesco Mommsen, incontrando il ministro Quintino Sella nel 1871, gli chiese: «Ma che cosa intendete fare a Roma? Qui non si sta senza avere dei propositi cosmopoliti». L’episodio è raccontato nel libro scritto a quattro mani da Andrea Riccardi e Marco Impagliazzo Roma, la Chiesa e la città nel XX secolo (San Paolo) e potrebbe in effetti essere preso come filo conduttore per la lettura del volume, che riporta in primo piano le figure dei Pontefici e dei loro più stretti collaboratori romani, in pratica dalla breccia di Porta Pia ai giorni nostri. Il tutto seguendo la vocazione di Roma città universale e il respiro della storia, perché, come scrive Riccardi fin dal primo capitolo, «senza storia non si capisce Roma».

L’aspirazione a un rinnovato universalismo, che emerge con chiarezza già con Pio XI e il suo rifiuto del nazifascismo, troverà un’espressione compiuta con Pio XII, sia nel corso della II Guerra mondiale, quando il Papa fece di tutto per proteggere la città, tessendo una rete che salvò la vita a molti (ebrei compresi), sia soprattutto dopo la fine delle ostilità, quando cominciò a indicare, scrivono gli autori, «un tema su cui avrebbe insistito tanto fino alla morte. Roma e la sua Chiesa dovevano tornare a essere un modello di fede, di umanità e di civiltà per il mondo». Dopo il Giubileo del 1950, papa Pacelli intuisce il limite della pastorale ordinaria e lancia iniziative straordinarie come "il mondo migliore", di cui padre Riccardo Lombardi, detto "il microfono di Dio", fu uno dei principali animatori, e quasi alla fine del suo pontificato la Missione di Roma, comprendendo che come già era avvenuto in Francia la città cuore della cristianità era divenuta «quasi terra di missione».
Sono quelli i veri anni della svolta, perché accanto alla vocazione universale, comincia a svilupparsi la linea che attraverso Giovanni XIII e Paolo VI porterà fino a Giovanni Paolo II e al pieno affermarsi della dimensione diocesana ed evangelizzatrice della Chiesa che è in Roma. Può sembrare strano ai nostri occhi, abituati ormai a una netta distinzione tra la Curia Romana (che aiuta il Vescovo di Roma nel suo servizio petrino) e il Vicariato (che è la curia diocesana), ma in pratica fino al 1962, quando papa Roncalli lo trasferisce nel Palazzo Lateranense, quest’ultimo è percepito come una semplice appendice della prima. È dunque papa Roncalli, che proviene da una forte esperienza di vescovo diocesano, a riformare la diocesi. E il Sinodo Romano «fu la sua strada», si legge nel volume, per arrivare allo scopo. Purtroppo la sua intuizione non fu seguita dai fatti, perché quell’esperienza rimase quasi solamente una questione giuridica e inascoltati furono i richiami del Pontefice alla redazione di un testo sinodale più caldamente pastorale. Ma lo spostamento del Vicariato presso la Cattedrale di Roma, cioè la Basilica di San Giovanni in Laterano, inaugurò di fatto un nuovo sentiero, che sarebbe stato allargato da Paolo VI e ancora di più da Giovanni Paolo II.
Mentre la città si sviluppa nelle sue periferie, mentre nuove questioni sociali avanzano (casa, povertà, immigrazione dall’Italia e poi dal mondo), mentre la sinistra comunista acquisisce una sua egemonia culturale e il partito dei cattolici smarrisce l’ispirazione ideale per attestarsi quasi esclusivamente su istanze di potere, Paolo VI - che Roma la conosce bene - riorganizza il territorio diocesano dividendolo in cinque grandi settori (i punti cardinali più il centro) e dando impulso alla pastorale attraverso l’azione del cardinale vicario (Ugo Poletti), del vice gerente e dei vescovi ausiliari posti a capo dei settori. Si arriva così al 1974, l’anno del Convegno cosiddetto "sui mali di Roma", confronto franco con le diverse anime cattoliche della città, descritta allora dal sociologo Giuseppe De Rita come «culturalmente inerte, moralmente opaca, politicamente deresponsabilizzata». Non fu una stagione facile, ma innescò il fuoco di una nuova missione, che anche attraverso la nascente Caritas e l’opera di sacerdoti come don Luigi Di Liegro, avrebbe portato a una presenza sempre più missionaria nelle periferie, raggiunte anche attraverso un’imponente opera di costruzione di nuovi complessi parrocchiali.
L’avvento poi di Giovanni Paolo II dà corpo alla nuova evangelizzazione anche in città. Fin dall’inizio papa Wojtyla fece il vescovo di Roma attraverso le visite alle parrocchie e poi con il Sinodo diocesano (dal 1986 al 1993) e con la missione cittadina in preparazione al grande Giubileo del 2000, trovando nel cardinale Camillo Ruini la traduzione operativa del suo indirizzo. Così le comunità ecclesiali romane (compresi i nuovi movimenti ben presenti in città) poterono coniugare l’idea universalistica di Roma con quella della Chiesa locale che presiede alla carità. In definitiva, concludono gli autori, «per mezzo secolo seppure con impulsi diversi e con diversi promotori, la Chiesa di Roma è stata costantemente chiamata alla missione. E dal 2013, con l’Evangelii gaudium, papa Francesco l’ha chiamata a "uscire da sé"». Secondo una aggiornata visione universalistica.
<+RIPRODUZ_RIS>

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: