martedì 6 settembre 2011
La seconda giornata di lavori del Congresso eucaristico nelle Marche è stata dedicata al tema della “fragilità”. In mattinata, riflessioni in contemporanea ad Ancona, Loreto e Osimo, dove si sono celebrate al mattino le messe presiedute rispettivamente da monsignor Liberati, monsignor Marrucci e monsignor Canalini, a cui sono seguite le lodi. In serata ad Ancona la messa presieduta dal cardinale Tettamanzi (nella foto Siciliani, gli stand delle cooperative nate dal Progetto Policoro).
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La seconda giornata di lavori del Congresso eucaristico nelle Marche è stata dedicata al tema della “fragilità”. In mattinata, riflessioni in contemporanea ad Ancona, Loreto e Osimo, dove si sono celebrate al mattino le messe presiedute rispettivamente da monsignor Carlo Liberati, monsignor Luigi Marrucci e monsignor Francesco Canalini, a cui sono seguite le lodi.Ad Ancona la relazione "forte" è stata quella di don Maurizio Chiodi, docente alla Facoltà teologica dell’Italia Settentrionale. “La ‘grazia’ della guarigione o della salvezza non accade senza la fede di chi lo accoglie e cioè senza l’adesione concreta della libertà dell’uomo”. “I racconti dei miracoli – ha spiegato – descrivono come chi incontra Gesù lo invoca e chiede anche con insistenza, senza tuttavia pretendere, ma sempre affidandosi alla sua volontà”. Così, ha proseguito, “è necessario ricordare che la fede non è la conseguenza o l’effetto del miracolo, come noi moderni siamo propensi troppo semplicisticamente a pensare; al contrario, il miracolo suppone la fede, non la produce, quasi come se dovesse determinarla ‘a forza’, come spinto da una evidenza ‘causale’”. Don Chiodi ha insistito sul rilievo “miracolistico” che spesso viene collegato all’adesione di fede, ricordando che “il dono di Dio, gratuito e incondizionato, non può attuarsi se non viene accolto. Ma una volta guarito,il malato stesso può diventare testimone per tutti, di ciò che egli ha ricevuto in dono. In questo senso la sua testimonianza può stimolare – ma non mai produrre – la fede negli altri”. “La sofferenza viene vissuta dalla persona come minaccia per la propria serenità, integrità o per la realizzazione delle proprie aspettative, dando origine ad una situazione di angoscia. Il dolore, qualunque sia la sua origine - corpo, psiche, relazioni, anima - è sempre sofferenza della persona”: così Maria Grazia Marciani, docente all’Università Tor Vergata di Roma, ha definito lo stato di fragilità umana legato alla malattia, nella relazione proposta sempre ad Ancona. Nella relazione dal titolo “Eucaristia: presenza di misericordia. Il dolore e la sofferenza nella relazione medico-paziente”, ha anzitutto riflettuto sulla sofferenza, considerandola come “espressione di una reciproca influenza tra ciò che succede nel corpo, il danno, e l’elaborazione che la mente ne fa, il senso. L’esperienza della sofferenza cambia in maniera sostanziale il significato diverso che viene attribuito al danno. Il dolore può essere uguale come danno, ma non lo è come senso. Ogni persona, considerata nella sua interezza, attribuisce al dolore un senso che dipende da molteplici variabili (momento della vita -invecchiamento-, contesto culturale, ruolo sociale, essere credente o non credente)”.A Loreto la riflessione è stata affidata a Paola Bignardi. “Il dono più importante che mi ha fatto la malattia è il credere che la grazia, che gli altri chiedevano per me, non era la guarigione, ma il vivere nell’abbandono al Signore, il continuare a credere nel suo amore, a vivere dentro di esso”. Lo ha detto la Bignardi, già presidente nazionale dell’Azione Cattolica, in Piazza della Madonna con i disabili e gli ammalati, che hanno gremito lo spazio davanti al santuario, nonostante il sole battente. Nella parte finale del suo intervento, la relatrice ha ricordato che Giovanni Paolo II, sette anni fa, proprio qui a Loreto, compiva il suo ultimo pellegrinaggio, con l’Azione Cattolica. “Ricordiamo tutti – ha detto – quell’Eucaristia celebrata senza fiato, la sofferenza di ogni parola e ogni gesto, lo sforzo di ogni incontro”. Anche da malato, Giovanni Paolo II “è stato fedele fino alla fine alla missione che il Signore gli aveva affidato”, insegnandoci “come si attraversa la malattia continuando a vivere, come si muore vivendo”. “Nei giorni della malattia – ha testimoniato Bignardi – l’Eucaristia è stata parola di vita eterna, non presenza di consolazione, ma di condivisione: al di là di ogni parola, il Signore c’era, si era fatto povero e impotente come me. L’Eucaristia è stata la forza che, giorno per giorno, mi ha aiutato a non smettere di credere nell’amore e nella bontà della vita. L’Eucaristia è un pane che non si può conservare, ma che ci aiuta a credere che ogni giorni si avrà pane per vivere, anche in situazioni che sembrano annientare la nostra umanità”. “Gesù – ha precisato la relatrice ricordando l’episodio del Getsemani – non ha amato il dolore, lo ha affrontato per obbedire a un disegno di amore, che è veramente più forte della morte”. “La malattia – ha proseguito - mi ha cambiato perché mi ha dato un altro punto di vista sulla vita: dal fronte dell’impotenza, della morte, le cose che contano cambiano, gli affetti sembrano più gratuiti. La malattia è una strada per scoprire dimensioni altre: la profondità, la gratuità, la forza che c’è nella debolezza”. “La malattia mi ha insegnato – ha concluso la relatrice – che il valore della vita non sta in quello che facciamo, ma nell’amore di cui i gesti più semplici sono carichi. La vita non consiste in quello che riusciamo a realizzare, ma nel dono che facciamo di essa”. Infine a Osimo la riflessione è stata condotta da padre Anrlado Pangrazzi e don Giuseppe Busani. “Dobbiamo vedere Cristo nel malato, ma soprattutto dobbiamo essere Cristo per il malato, perché anche noi possiamo essere farmaci, testimoni della salvezza”. Lo ha detto p. Arnaldo Pangrazzi, docente di pastorale sanitaria all’Istituto Camillianum di Roma. “Non si può vivere senza sofferenza - ha aggiunto Pangrazzi, intervenendo a Osimo - ma non è la sofferenza che santifica l’uomo; il concetto è che non si può soffrire senza sperare, è questo che rende feconda la sofferenza. E non si può sperare senza aprirsi”. Pangrazzi ha parlato delle azioni che devono accompagnare i ministri dell’Eucaristia nel confortare gli ammalati: “Essere per il malato, comunicare, imparare dal malato sostenendo e promuovendo la sua forza, e solo alla fine fare”. “Bisogna sostenere il venerdì santo dei malati consapevoli che la propria presenza è segno d’amore, senza affrettarsi di annunciare la resurrezione, ma accettando - ha concluso - la fragilità umana con umiltà”.“La Chiesa fornisce contatti e non concetti, non spiega il dolore, ma testimonia l’assunzione del dolore che trasfigura”. Lo ha detto il liturgista mons. Giuseppe Busani, vicario per la pastorale della diocesi di Piacenza-Bobbio, parlando al teatro “La Nuova Fenice” di Osimo (Ancona). L’incontro si è aperto con un video introduttivo dell’Ufficio Cei per la pastorale della sanità sull’esperienza di Emmanuel Exitu, malato di Sla ma sempre “protagonista del suo percorso di vita”. “La liturgia è semplice, è efficace senza pretendere efficienza”, ha detto don Busani, che ha ricordato come la parabola della lavanda dei piedi manifesti “il modo in cui Dio vuole rimanere con noi, in modo semplice e umile”. Il vicario ha esaminato il rito liturgico domenicale, che significa “ricevere se stessi dalle mani di Dio”, e c’impone di “dimenticare il soggettivismo per aprirci all’invito dell’altro”. “L’ultima cena - ha concluso don Busani - si compie nel momento di crisi radicale delle relazioni per Gesù; ma è proprio in quel momento di fragilità che il dono non viene negato, ma anzi si fa estremo atto d’amore. I distanti sono così diventati i destinatari del dono”.
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