mercoledì 16 settembre 2015
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L’impressione di essere stati presi in giro è amara. Ora giornali e tv straripano di immagini e notizie sui profughi. Straripano come straripano i barconi, i treni, come le stazioni. Ne straripano pure le dichiarazioni di politici, i programmi di organismi internazionali, le indignazioni, le messainscena. Tutti spiazzati di fronte alla grande emergenza. Ma quattro anni fa, sì quattro anni fa, mi bastò andare, invitato a un festival di poesia in Siria, a Damasco, per capire che cosa sarebbe successo. Tutti gli artisti lì presenti – poeti, pittori, scultori – erano preoccupati. Stavano iniziando i primi conflitti nel nord del Paese. E mormoravano: «Certo Assad è un dittatore, ma quelli che vogliono il suo posto sono peggio. Almeno ora si vive e convive, poi chissà, noi scapperemo...».A parlare così erano poeti, artisti, amanti della libertà. Gente che amava anche la vita reale del suo popolo. Ed erano tesi. “Primavera araba” ci raccontavano gli stessi media e gli stessi rappresentanti e portavoce di istituzioni internazionali che oggi parlano di esilio, di esodo, di emergenza. Ma, appunto, bastava andare a un festival di poesia, per capire come stavano veramente le cose. Bastava andare dopo le letture al ristorante a chiacchierare a cena. In quella occasione scrissi pure una poesia, dove si parlava di un bambino, accucciato, sporco e povero vicino a una porta della città. Gli lasciai in regalo, come una sperduta supplica di protezione, un piccolo Gesù comprato nella vicina casa di Ananìa.Ora i bambini siriani hanno commosso il mondo, ma allora dov’erano le diplomazie, gli osservatori, coloro che hanno il compito di osservare, capire, intervenire? Mentre io come altri vedevamo in che direzione di esodo e di schianto si stava andando, e non per doti profetiche ma solo chiacchierando con artisti e poeti, dove si aggiravano invece diplomatici e osservatori, giornalisti e ministri? Dalle loro stanze non si vedeva nulla? O non volevano vedere, forse dovevano fare finta di non vedere? La poesia che riporto è del 2011. Queste parole mi sono tornate in mente, le ho ritirate fuori dalle bozze di un libro che sta lentamente nascendo, quasi per rabbia dinanzi alle giravolte, alle ipocrisie, alla mancanza di vera responsabilità di questa strana cosa chiamata Europa. «Damasco. Il cielo si è stretto nei vicoli,/ tra i gatti, /uomini seduti da secoli,/ si spaccano le chiese ferite, /il bambino, non lavato, scalzo, accucciato a Bab-sarqui / forse si chiede perché con due monete/ gli do un piccolo rosario con un Gesuino appeso,/ preso alla casa di Anania,/ lo afferra/ è il gesto più sconcio,/ impotente e glorioso che ci sia. /A nord lo stato islamico sta iniziando la guerra.». Se lo sapevano i poeti di un festival a Damasco che le cose prendevano questa piega, come mai l’Europa si è trovata impreparata? Ora si sono messi a parlare di emergenza, sbattono i profughi da un posto all’altro, da un servizio tv all’altro. Ma l’emergenza è davvero un’altra. È metter fine alla ipocrisia, alla presa in giro, metter fine alla finta informazione e alla finta politica che prende in giro le persone e i cuori delle persone. Perché è vero che spesso i poeti preavvertono i cambi di epoca, i cambi del vento. Ma questa volta non si trattava di strane visioni o profezie. Si trattava di guardare e di ascoltare davvero. Di avere uno sguardo nitido, libero, come spesso hanno gli artisti sul mondo. Ci fosse stato questo sguardo non solo tra gli artisti (che pur han gridato il loro allarme) ma anche tra i diplomatici e i capi della politica, quanta sofferenza in meno, quanti bambini in meno da piangere...
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