domenica 4 agosto 2019
Il cardinale Bassetti lancia a Sarajevo e Spalato l’Incontro per la pace nel Mediterraneo «È urgente favorire la riconciliazione fra i popoli». Il grido dei vescovi della Bosnia e della Croazia
Lo storico ponte di Mostar, distrutto nel 1993 durante la guerra in Bosnia ed Erzegovina e poi ricostruito

Lo storico ponte di Mostar, distrutto nel 1993 durante la guerra in Bosnia ed Erzegovina e poi ricostruito

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La porta della sagrestia è in un lato della Cattedrale. Sul marciapiede vicino ai gradini si scorge quella che agli occhi di uno straniero appare come una macchia rossa. Invece è una delle «rose del dolore », come le chiamano a Sarajevo, e formano una sorta di “Via Crucis di guerra” lungo le strade della capitale della Bosnia ed Erzegovina. Perché indicano i punti in cui hanno seminato morte e sangue le bombe cadute sulla città nell’assedio durato dal 1992 al 1996. Il cardinale Vinko Puljic, che mai ha abbandonato la sua gente negli oltre mille giorni di attacchi da parte dei militari serbi, la sfiora appena esce dal Duomo. Gli si avvicinano due ragazzi e una coppia di sposi. Cappello in testa e sorriso sul volto, li saluta con calore e ascolta le loro confidenze. «Nel Paese – racconta – erano 800mila i cattolici prima della guerra; oggi non si raggiungono i 450mila. E qui a Sarajevo abbiamo una delle situazioni più drammatiche: siamo passati da 528mila a 180mila. Un autentico esodo». Cattolici significa per lo più croati, uno dei “popoli” che compongono la Bosnia ed Erzegovina. Sono poco meno del 15% degli abitanti: la metà è bosniaca, quindi musulmana, e oltre un terzo serba, cioè ortodossa. Insomma, i cattolici sono una minoranza che si sta sempre più assottigliando «in una nazione ancora turbolenta», dice Puljic.

Al suo fianco ha il cardinale Gualtiero Bassetti, presidente della Cei, giunto per lanciare nei Balcani l’Incontro dei vescovi del Mediterraneo per la pace e il dialogo che si terrà a Bari nel febbraio 2020 e che si concluderà alla presenza di papa Francesco. «Eminenza, la attendiamo il prossimo anno», sussurra Bassetti mentre prende sottobraccio l’arcivescovo. «Certo – risponde Puljic – . Porterò le attese, le speranze, le difficoltà di una Chiesa che vive immersa in una realtà multiculturale e multireligiosa, marcata da tre identità ». Una terra ancora divisa. L’accordo di Dayton che ha chiuso il conflitto nell’ex Jugoslavia ha congelato gli attriti, senza indicare vie per superarli. Tre i presidenti. Tre i ministri in ogni dicastero. E giù fino alle amministrazioni locali, imponendo ovunque una “troika” etnica che paralizza le istituzioni. «Se la politica non crea condizioni di effettiva uguaglianza fra le tre comunità e qualcuno viene considerato più uguale dell’altro, non potrà mai esserci una convivenza serena», denuncia il cardinale.

«Più che di emigrazione, dovremmo parlare di fuga dei cattolici. Nel senso che non si ritorna », spiega il nunzio apostolico, l’arcivescovo Luigi Pezzuto. Accogliendo la delegazione dei vescovi dell’Umbria guidata da Bassetti e dall’arcivescovo di Spoleto-Norcia, Renato Boccardo, presidente della Conferenza episcopale regionale, l’“ambasciatore” della Santa Sede ammette che si sta registrando un’allarmante «emorragia di giovani», diretti per lo più in Germania e Austria, ma anche in Nord America o Australia. Lasciano una città dove il salario medio è di 400 euro e le pensioni di 150. «Se un medico si trasferisce a Berlino, guadagna anche dieci volte tanto – osserva Pezzuto –. E ciò attrae».

La Chiesa si sta mobilitando per arginare il fenomeno. «Investiamo sulle scuole, per citare un caso», riferisce Puljic. Ce ne sono cinque legate all’arcidiocesi che accolgono 5mila ragazzi, dalle elementari alle superiori. «Se non esistessero, i cattolici sarebbero forse molti di meno – annota –. E sono le uniche davvero aperte a tutti, dove studiano fianco a fianco cattolici, ortodossi e musulmani ». Anche la Cei le sostiene. «Insieme con molti altri progetti che ci testimoniano la vicinanza della Chiesa italiana ai nostri bisogni», chiarisce il porporato. Finanziando ad esempio un nuovo studentato che sarà inaugurato nelle prossime settimane e che si aggiunge ai sette esistenti. «La comunità ecclesiale vuole favorire chi investe nel proprio futuro qui», fa sapere don Miroslav Cavar, direttore del settimanale diocesano Katolicki tjednik. E don Marko Skraba racconta come la Chiesa locale distribuisca oltre mille borse di studio. L’arcidiocesi fa anche da ufficio di collocamento. «Siamo in grado di offrire un’occupazione a 5mila persone nelle realtà cattoliche e di aiutare i giovani a trovare un impiego – spiega il prete giornalista Dražen Kustura –. Vogliamo dire che si può vivere in questo Stato da cristiani in comunione con Roma». La redazione è un appartamento sequestrato nei decenni del regime comunista di Tito. Vennero arrestati tutti i cronisti quando la rivista fu soppressa. Oggi i giornalisti sono tredici, in massima parte laici.

C’è chi ha chiamato Sarajevo la “Gerusalemme d’Europa”. Definizione che resta più che mai attuale. Campanili e minareti si stagliano gli uni accanto agli altri verso il cielo. Poi qualche targa o cartello in ebraico rimanda al piccolo drappello del popolo dell’Alleanza ancora presente. E come Gerusalemme la città mostra lo “scandalo” della divisione fra i cristiani e i muri (mentali, in questo caso) alzati dai seguaci delle tre religioni monoteiste. I petroldollari arabi stanno cambiando il volto della metropoli. «Oltre la metà delle mille moschee di Sarajevo è stata costruita dopo la guerra», spiega il caporedattore del settimanale diocesano, don Josip Vajdner. A riprova di un’evidente influenza islamica. E basta passeggiare fra le vie dello shopping per incontrare decine di donne con il burqa.

«Si vive da separati in casa in una regione che però non può restare prigioniera del passato – avverte il nunzio –. La sfida è quella dell’unità nella diversità». Don Tonino Bello si sarebbe affidato alla formula «convivialità delle differenze». Bassetti ricorda il vescovo pugliese “sul passo degli ultimi” che da presidente di Pax Christi e già piegato dalla malattia aveva marciato per la pace sotto le bombe nel dicembre 1992. «In numerosi angoli del Mediterraneo – insiste il presidente della Cei – la violenza è ancora all’ordine del giorno. Ecco perché le tre fedi nate da Abramo sono chiamate a costruire nel quotidiano la pace e a favorire la riconciliazione».

La palazzina che ospita la rappresentanza diplomatica è a poche centinaia di metri dal mercato coperto chiamato da tutti Markale. Bassetti si muove fra i banchi per raggiungere la “rosa del dolore” che contiene ancora un frammento dell’“ordigno del massacro”che aveva fatto 68 morti. Si ferma in preghiera mentre i venditori spostano casse di angurie e mele. Poco prima, nel Veliki park, ossia nel Grande parco, aveva reso omaggio al memoriale dei bambini uccisi nel conflitto: oltre mille. «La speranza ha comunque il volto dei ragazzi», ripete il cardinale mentre entra nel Centro giovanile “Giovanni Paolo II” realizzato anche grazie alla Cei. Otto piani con palestra, foresteria, asilo, sale per la musica. «È anche un laboratorio di dialogo – afferma il direttore don Simo Marsic –. La politica e il clima sociale non lo incoraggiano. Ma noi non ci arrendiamo. Consapevoli che non c’è domani senza cultura dell’incontro».

«La nostra Chiesa si sta impoverendo». Ha un’espressione preoccupata Marin Barišic, arcivescovo di Spalato-Macarsca. Anche la cattolica Croazia fa i conti con l’emorragia di fedeli che lasciano il Paese. «Sono 400mila i croati all’estero – spiega l’arcivescovo –. E fra loro ci sono medici, insegnanti, ingegneri. Insomma, professionalità di rilievo, per assicurare lo sviluppo di una nazione, che vengono a mancare». Barišic accompagna il presidente della Cei, il cardinale Gualtiero Bassetti, e i vescovi dell’Umbria fra le vestigia del palazzo di Diocleziano, simbolo della città affacciata sull’Adriatico. «Siamo una polis nata dai profughi. Perché Spalato si è formata dopo la distruzione della vicina Salona, capitale della provincia romana della Dalmazia».

Oggi sono i migranti che si muovono lungo la “rotta balcanica” a bussare alle porte della Croazia. In 10mila sono fermi sul confine, nel territorio della Bosnia ed Erzegovina, sperando di entrare nel Paese che fa parte dell’Ue per raggiungere in primo luogo la Germania. «Dopo la chiusura totale dell’Ungheria – racconta Daniele Bombardi, referente di Caritas italiana nei Balcani – si punta verso la Bosnia e la Croazia. I due Paesi sono totalmente impreparati all’accoglienza. E la Croazia non usa mezzi termini per i respingimenti». I profughi sono siriani, iraniani cristiani perseguitati, afgani, pachistani che transitano dalla Turchia e si immergono nell’ex Jugoslavia. «Con la riduzione degli sbarchi sulle coste europee del Mediterraneo – afferma Bombardi – la “rotta balcanica” si sta rivelando un’alternativa che alletta. Ciò dimostra che le migrazioni non si fermano a tavolino».

A Mostar, come a Sarajevo, le ferite della guerra segnano ancora non solo la società ma anche i condomini che restano crivellati di colpi. Il ponte-simbolo, distrutto nel 1993 e poi ricostruito, è ormai un’attrazione turistica, attraversato da migliaia di visitatori e persino dai pellegrini che arrivano nella vicina Medjugorje. Anche il pavimento della Cattedrale, pesantemente danneggiata dagli ordigni e adesso risorta, mostra le piaghe della devastazione: sono i fori delle 1800 pallottole cadute sulla chiesa. «Negli ultimi quindici anni l’Ergezovina ha perso 15mila cattolici», spiega il vescovo di Mostar-Duvno, Ratko Peric. Accanto ha il giovane segretario don Pero Milicevic: con il fratello gemello è l’ultimo di nove figli e ha visto la madre morire sotto le bombe. «Odi e divisioni rimangono – osserva Peric –. Ma come Chiesa investiamo tutto nel dialogo. Che è la sola alternativa alla vendetta».

«La Chiesa che testimonia il Vangelo nei Balcani ci insegna che le differenze non sono una minaccia ma una ricchezza». L’arcivescovo di Spoleto-Norcia, Renato Boccardo, commenta il viaggio dei vescovi dell’Umbria in Croazia e in Bosnia ed Erzegovina. A guidare la delegazione il presidente della Cei e arcivescovo di Perugia-Città della Pieve, il cardinale Gualtiero Bassetti, e il presidente della Conferenza episcopale regionale, l'arcivescovo di Boccardo. Cinque giornate nei Balcani per «conoscere queste Chiese sorelle e portare la vicinanza della Chiesa italiana», afferma Boccardo. Hanno partecipato i vescovi Luciano Paolucci Bedini (Gubbio), Domenico Cancian (Città di Castello), Mario Ceccobelli (emerito di Gubbio), Giuseppe Piemontese (Terni-Narni-Amelia), Marco Salvi (ausiliare di Perugia-Città della Pieve) e Benedetto Tuzia (Orvieto-Todi). «La comunità ecclesiale - sottolinea Boccardo - ha attraversato la guerra e oggi è voce di speranza in una terra multietnica e multireligiosa. Tutto ciò dice che, in un frangente come quello attuale dove le diversità sono presentate come aggressive, la convivenza non è impossibile. La Chiesa italiana è rimasta vicina a una regione, che porta ancora i segni dei conflitti, nella fase della ricostruzione». E la mente va alla ricostruzione in Umbria dopo il terremoto. «Non si procede – afferma Boccardo –. Nonostante le passerelle politiche, ci scontriamo con una burocrazia che rischia di fare più danni del sisma».

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