sabato 24 febbraio 2024
La recente elezione della nuova guida della Chiesa siro-malabarese ha riportato l’attenzione su una comunità dalle radici antichissime, che ha molto da dire anche all'Occidente
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La recente elezione di Raphael Thattil a nuovo arcivescovo maggiore della Chiesa siro-malabarese ha richiamato – pure sulle pagine di Avvenire – l’attenzione su di un angolo del mondo ecclesiastico piuttosto noto a quanti si occupano della storia del cristianesimo. Si parla di una Chiesa antichissima, ubicata nella zona settentrionale dello Stato indiano del Kerala, nella quale la liturgia viene celebrata secondo il rito siriaco.

Perché questa Chiesa apparentemente marginale è importante per gli storici? Innanzitutto in virtù delle sue origini, che rimandano a un aspetto fondamentale proprio del mestiere di storico: la legittimità delle ricostruzioni indiziarie. Non sempre i documenti trasmettono certezze, e vi sono casi in cui servono ricerche pazienti per raggiungere la verosimiglianza. Secondo tradizioni apocrife, la Chiesa del Malabar sarebbe stata fondata dai cristiani di san Tommaso, eredi spirituali dell’apostolo che volle toccare per credere. Tommaso si sarebbe spinto fino alla costa sud-occidentale del Malabar, dopo essersi messo in viaggio controvoglia. Qui avrebbe sofferto il martirio, trovando sepoltura a Meliapur (vicino Madras), dove parecchi secoli dopo il gesuita Francesco Saverio (†1552) avrebbe visitato la sua tomba, ancora oggi oggetto di grande venerazione.

L’eventualità che Tommaso fosse davvero stato in India non è affatto da escludere, viste le conoscenze navali e metereologiche (era noto il ciclo dei monsoni) dell’epoca. Ancora, è assodato che colonie giudaiche fossero presenti in India già al tempo della vita di Gesù e monete romane sono state ritrovate a quelle latitudini. Siano stati l’apostolo o altri discepoli, con ogni probabilità una Chiesa cristiana in India fu istituita già verso la fine del II secolo. Di certo era presente e attiva tra III e IV secolo, periodo al quale risale la prima evidenza documentale di una missione cristiana. Una cronaca del 295 racconta infatti che un vescovo chiamato Davide di Bassora si fosse imbarcato dal Golfo Persico diretto proprio in India, dove non solo arrivò sano e salvo, ma riuscì a convertire anche molte persone. Gli indizi, insomma, non mancano.

Abbiamo menzionato il celebre santo missionario Francesco Saverio, gesuita come quel Roberto de Nobili (†1656) che legò il proprio nome a un’interpretazione innovativa dell’evangelizzazione. De Nobili arrivò nel 1606 nel Madurai, una regione del Tamil Nadu. Molto critico nei confronti della pratica delle conversioni di massa affrettate, tipiche della missione dell’epoca, de Nobili era convinto che per conquistare nuovi fedeli al cristianesimo fosse necessario diventare indiani tra gli indiani. Iniziò a vestirsi con gli abiti tradizionali della regione e a mangiare secondo la dieta locale. Studiò il tamil e il sanscrito e approfondì la conoscenza dei riti della cultura locale, quella malabarica, giudicandoli compatibili con la fede cristiana. Come de Nobili in Malabar, Matteo Ricci (†1610), pure lui gesuita, mostrò un atteggiamento di estrema tolleranza nei confronti dei cinesi convertiti che continuavano a praticare gli antichi riti del loro credo, attribuendo loro un significato civile e non religioso. Ricci era favorevole a questa forma di accomodamento e riteneva legittima la compatibilità della partecipazione a cerimonie confuciane con una sincera fede cristiana. Le interpretazioni proposte dai due gesuiti, all’esito di vari procedimenti canonici dall’esito contraddittorio, furono respinte da Benedetto XIV, che nel 1744 determinò di fatto l’incompatibilità tra tradizioni locali e liturgia cattolica. De Nobili era ormai morto da decenni, ma aveva comunque dovuto combattere in vita (e lo fece assai energicamente) il dissenso dei suoi stessi confratelli, che nella sua propensione all’adattamento avevano visto il possibile germe dell’eresia. A Ricci era toccata una sorte simile.

Uno dei compiti principali di Raphale Tattil, oggi, è quello di risolvere un duro scontro liturgico interno alla Chiesa siro-malabarese. Si tratta di un conflitto di tutt’altra sostanza rispetto a quelli del Sei-Settecento, il quale richiama per sola assonanza una vicenda certo meritevole di essere conosciuta e ricostruita, come abbiamo fatto nelle righe precedenti. Restando agli insegnamenti del passato e senza forzare similitudini con il presente, possiamo mettere l’accento su due questioni storiografiche. In primo luogo, non è facile avere certezze rispetto alle origini di una Chiesa - lo abbiamo visto con Tommaso - immaginiamoci di una ritualità. In seconda battuta, la resistenza di Benedetto XIV alle aperture proposte da de Nobili e Ricci causò una crisi secolare per le missioni in Cina e in India e fu smentita due secoli dopo. In un mondo completamente diverso, infatti, il da poco eletto Pio XII (1939) decise di concedere ai cristiani il permesso di partecipare alle cerimonie civili in Cina. L’accomodamento, sia pure con grande ritardo, fu visto come una opportunità.

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