mercoledì 28 febbraio 2018
Il ricordo di don Gnocchi di monsignor Angelo Bazzari che per 23 anni ha guidato la fondazione che porta il nome del beato don Carlo: «Pensava a come riabilitare gli uomini facendone cittadini attivi»
Don Gnocchi presenta un bambino ad Alcide De Gasperi (Foto di Archivio)

Don Gnocchi presenta un bambino ad Alcide De Gasperi (Foto di Archivio)

COMMENTA E CONDIVIDI

Dopo 23 anni alla guida della 'baracca' di don Gnocchi, monsignor Angelo Bazzari, oggi presidente onorario della Fondazione voluta dal beato, ha tracciato un bilancio della sua esperienza. Non voleva lasciare un report di fine mandato e un bilancio economico, ma tracciare un resoconto umano e valoriale tra storia e pedagogia per raccontare un quarto di secolo che ha toccato il culmine nella beatificazione dell’Angelo dei mutilatini il 25 ottobre 2009 in piazza Duomo a Milano.

Ma non solo, perché sotto la sua guida i centri da 13 sono diventati 28 in tutto il territorio nazionale, e la Fondazione che porta il nome di don Carlo è oggi una delle maggiori realtà sanitarie europee. «Scelte fatte in continuità con don Carlo. Fu lui – spiega Bazzari – a volere un centro a Salerno per creare un ponte con il Mezzogiorno. E più che tentare di entrare nella pedagogia e nella spiritualità di don Carlo, in questo libro scritto con Oliviero Arzuffi ho voluto mettere in fila un concatenamento dello sviluppo convinto che tutto questo sia avvenuto seguendo le indicazioni del fondatore e facendo germogliare il seme che lui ha messo seppur in condizioni diverse. Se si fosse fermato ai mutilatini la cosa si sarebbe chiusa lì e avremmo un medaglione in più nei tornanti della storia della Chiesa».

Ma don Gnocchi oggi su cosa punterebbe?

È la domanda che mi sono posto spesso in 23 anni. cosa avrebbe fatto don Gnocchi di fronte a queste situazioni, in uno scenario cambiato e con la domanda sempre più insistente degli ultimi che non godono di assistenza dignitosa in una congiuntura difficile? La risposta era continuità con i predecessori da una parte e dall’altra solcare una fedeltà coerente con la missione e la visione di don Carlo che aveva al centro l’uomo e che pensava a come poterlo riabilitare inserito in una vita normale, non parcheggiando i feriti e i mutilati ma facendone cittadini attivi.

Come?

Con l’inserimento nella vita attiva, nel lavoro, nella scuola, nel gioco. La linea è chiara: Don Carlo guardava le patologie più gravi e trascurate in strutture pionieristiche facendosi carico di questi 'scarti'. Così ad esempio dalla sua morte ad oggi abbiamo mantenuto nella Fondazione l’assistenza ai bambini dilatando gli spazi di condivisione e servizio ampliando i paletti della solidarietà tenendo conto delle diverse patologie di oggi che non sono effetto solo della guerra o della violenza. Lui stesso fece in tempo a prendersi cura dei poliomelitici e volle che il centro di Milano fosse pilota per la cura della polio. Personalmente ho cercato di ispirarmi al suo stile, all’attenzione alla persona ferita o investita da male e sofferenza.

C’è un percorso storico e uno pedagogico nella Fondazione che lei tratteggia. Quali sono state le sfide e le intuizioni dei suoi presidenti?

Don Carlo, nostro ispiratore, fondatore e sognatore, ha voluto lasciare una fondazione quale ponte tra ecclesiale e civile. Ha creato una istituzione di carità evangelica rivestendola con un abito civile, una grande novità. Il cardinale Carlo Maria Martini stesso mi chiese di preservare a attualizzare questa intuizione perché considerava preziosa e unica questa funzione. Il primo successore monsignor Edoardo Girardi, che era uno degli 'amis' («amici» in dialetto milanese, ndr ), ha dato continuità adattandosi alle sfide del tempo passando dai collegi ai primi centri socio educativi. Nel suo trentennio monsignor Ernesto Pisoni e ha affrontato la crisi delle socializzazioni selvagge dei disabili per le chiusure dei grossi istituti del 1971, Ha aperto i centri ai bambini che venivano dalle zone di guerra e ha introdotto la ricerca scientifica di base per professionalizzare i servizi

E i suoi 23 anni?

Credo di aver consolidato e sviluppato la dimensione della solidarietà sociale, quella scientifica e infine quella gestionale e organizzativa. Ho raggiunto lo scopo dell’allargamento dei centri che erano 13 e sono diventati 28 non per sfizio, ma per condurre la Fondazione fuori da un limbo. Altra cosa importante è il percorso pedagogico tratteggiato nel volume, sia per dare agli operatori attuali una sorta di vademecum per capire i valori cui deve rispondere la loro coscienza e per far sì che i nuovi abbiano una cucitura tra passato, presente e futuro. In questo percorso ho cercato di ricordare il dialogo continuo che deve esserci tra dimensione civile ed ecclesiale. Così nel libro ricordiamo il rapporto della Fondazione con i diversi Papi, e i presidenti della Repubblica. Lo sforzo è quello di saldare la pietas del pagano Enea con la figura evangelica del buon Samaritano.

Cos’è per lei infine la 'baracca' di don Gnocchi?

La fondazione per me è sentinella sul confine tra pubblico e privato, tra profit e non, tra scienza e religione. Tra umano e divino. Mi rifaccio ancora al beato don Gnocchi: perché la sofferenza e il dolore innocente toccano tutti, non solo i credenti.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: