mercoledì 31 ottobre 2018
Nella missione a 500 chilometri dalla capitale, oltre al parroco vi sono altri confratelli e consorelle. Tra le attività un asilo, un doposcuola, la coltivazione di verdure e anche un percorso...
Nel villaggio di Arvaiheer la chiesa è a forma di gher, le circolari tende mongole

Nel villaggio di Arvaiheer la chiesa è a forma di gher, le circolari tende mongole

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D’inverno la steppa infinita del villaggio di Arvaiheer, capoluogo dell’Uvurkhangai in Mongolia, è un distesa bianca e soffice. Le temperature scendono a meno trenta. Gli abitanti del villaggio si proteggono dal freddo nelle gher, le circolari tende mongole. Anche la chiesa sorge sotto una tenda fatta di legno e feltro. «All’inizio di ottobre ha già nevicato, siamo sotto lo zero», racconta padre Giorgio Marengo, missionario della Consolata, 44 anni, parroco di Arvaiheer. «È stata la provvidenza a guidarci fin quaggiù», confida. Dodici anni fa, dopo aver trascorso un tempo nella capitale, i missionari e le missionarie ricercano un altro luogo non troppo isolato per portare il Vangelo.

Esplorano l’area nel raggio di 500 chilometri da Ulaanbaatar e arrivano dove il cristianesimo è praticamente sconosciuto e il buddismo tibetano l’unica religione praticata, assieme ad una forte spiritualità sciamanica. Qui nel 2006 aprono la seconda missione dopo quella di Ulaanbaatar. Il paesaggio mozzafiato e i cieli tersi dell’Asia centrale da allora accompagnano le giornate di padre Marengo e dei suoi confratelli e consorelle. «Quando vado a pregare salgo sulla collina e vedo da una parte l’orizzonte immenso e vuoto degradante verso il deserto del Gobi e dall’altra le montagne della catena dei monti Hangai» racconta. «All’inizio prendemmo in affitto una locanda dividendoci gli spazi e dopo un anno ricevemmo un permesso per costruire una casa e piantare delle gher compresa la nostra chiesa – racconta –. La gente all’inizio si chiedeva chi fossero questi stranieri: abbiamo cominciato con la preghiera, la liturgia e il servizio ai poveri».

Quattro anni dopo un primo gruppetto di sei donne ha ricevuto il Battesimo. «Oggi i parrocchiani sono una quarantina: li accompagniamo io, un confratello congolese e tre sorelle, da Tanzania, Congo e Italia; viviamo nella parte periferica del villaggio dove abitano 35mila persone». La Chiesa in Mongolia ha in realtà una storia antica precedente all’anno mille, ma di fatto solo 26 anni fa, col crollo del comunismo, è stato possibile costituire una presenza cattolica strutturata, grazie all’arrivo dei primi tre missionari di origine belga (Cuore immacolato di Maria) nel 1992. «La Chiesa è tuttora una realtà minimale, ci sono 1.300 battezzati in un Paese grande cinque volte l’Italia», dice padre Giorgio, che è autore di un libro appena uscito per l’Urbaniana University Press, dal titolo «Sussurrare il Vangelo nella terra dell’eterno cielo blu».

Eppure l’azione dello «Spirito Santo guida le persone: noi possiamo fare da catalizzatori ma il percorso è dato dalla grazia». La giornata in missione inizia alle sette del mattino con le lodi e l’adorazione silenziosa del Santissimo, seguono il Rosario e la Messa con i parrocchiani. «Alle nove prendiamo un the con chi ci ha raggiunti a Messa, ed iniziamo con le attività: l’asilo per i bimbi, il doposcuola, le docce pubbliche e un percorso di gruppo per alcolisti che vogliono uscire dalla dipendenza», spiega ancora padre Giorgio. D’estate c’è anche la coltivazione delle verdure nella serra. La tradizione sciamanico buddista qui nella steppa è fortissima, tanto che si è intrapreso un cammino di dialogo interreligioso. «Nonostante l’ateismo imposto dal comunismo – spiega il missionario – il background religioso è sempre stato radicato nelle coscienze. La vita è letta con occhi spirituali, il fenomeno non è mai solo naturale ma legato all’invisibile».

Dal punto di vista materiale la gente che frequenta la missione vive di espedienti: non si parla di povertà estrema ma di grande fatica a soddisfare i bisogni più essenziali. La massa delle persone, e la parte socialmente più fragile, vive di sussidi governativi e aiuti estemporanei. Poi c’è il commercio, grazie ad un grande mercato dove si vendono pellami, carne, lana e cashmere. Fondamentale è anche l’allevamento di mucche, tra cui lo yak, cammel-li, pecore e capre. «Pensate solo che in Mongolia ci sono tre milioni di esseri umani a fronte di 61 milioni di capi di bestiame », dice padre Giorgio.

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