lunedì 26 marzo 2012
COMMENTA E CONDIVIDI
Venerati e cari confratelli,
ci siamo posti con la preghiera alla presenza del Signore, dando in tal modo avvio ai lavori della sessione primaverile del Consiglio Permanente della Conferenza Episcopale Italiana. Lo sforzo sarà di armonizzare il nostro cuore a quello di Cristo: solo una simile tensione infatti è radice e garanzia di ogni esercizio di discernimento ecclesiale. Consentite tuttavia che già in apertura io ringrazi il Santo Padre per avermi voluto confermare – per i prossimi cinque anni – alla presidenza della CEI: desidero farlo, rinnovando anzitutto dinanzi a voi il mio impegno a servizio della coesione dei Vescovi del nostro Paese e per l’efficacia del nostro collegiale ministero in comunione con il Successore di Pietro, Pastore universale e Primate d’Italia. Così come confermo la mia gratitudine ai singoli Vescovi e alla Conferenza tutta per la fraterna amicizia e la cordiale comprensione di questi anni. Più in generale, sento che dobbiamo ringraziare Benedetto XVI per la sapienza del suo magistero e la mansuetudine con cui esercita la potestà petrina, offrendo a noi e al mondo intero l’esempio che viene dal Vangelo. Nell’impresa apostolica a cui in questi giorni si sta dedicando – pellegrino in Messico e a Cuba – va la fervida preghiera nostra e delle nostre comunità. In pari tempo, porgiamo le nostre felicitazioni all’Arcivescovo di Firenze, e già Segretario Generale della nostra Conferenza, Giuseppe Betori, per la sua elevazione al Cardinalato.
 
Fin dall’inizio vogliamo esprimere la nostra vicinanza ai connazionali che si trovano ancora – in diversi Paesi e per diverse congiunture – sotto sequestro, affinché quanto prima siano lasciati liberi di tornare sani alle loro famiglie. Così come, nella preghiera, porgiamo le più sentite condoglianze ai familiari dell’ingegner Franco Lamolinara e del sergente Michele Silvestri, che hanno perso la vita in circostanze drammatiche. A tutti i volontari e a tutti missionari sparsi per il mondo vanno la nostra ammirazione e la nostra partecipe solidarietà.
 
GLI ALTRI CI APPARTENGONO1. Buona parte della Quaresima è già alle nostre spalle e a grandi passi ci avviciniamo alla Pasqua. Nei deserti della vita, tra asprezze e vacuità, presi dentro ad un materialismo che ha il proprio contrappunto negli affanni di una crisi indomabile, noi con le nostre comunità abbiamo cercato di trasformare questo in un tempo di grazia. Forse che non c’è in noi «la certezza che, anche dalla roccia più dura, Dio può far scaturire l’acqua viva che disseta e ristora» (Benedetto XVI, Discorso all’Udienza generale del Mercoledì delle Ceneri, 22 febbraio 2012)? La Quaresima è icona dell’esistenza e scuola per imparare a vivere come ha fatto Gesù, senza scappatoie: o il potere e i suoi derivati, o la croce in vista della Risurrezione. Su questo schema interpretativo ha particolarmente insistito il Santo Padre, a partire dal suo Messaggio per la Quaresima di quest’anno, proponendoci di andare al cuore dell’esperienza cristiana: la carità. Il brano biblico di riferimento è tratto dalla Lettera agli Ebrei: «Prestiamo attenzione gli uni agli altri per stimolarci a vicenda nella carità e nelle opere buone» (10,24). Un incitamento concreto, perché dopo aver esortato a fissare lo sguardo su Gesù (cfr Eb 3,1), invita a porre attenzione all’altro, agli altri, ad essere cioè attenti al loro bene e vicendevolmente premurosi. Vietato ignorare o sentirsi estranei alla sorte dei fratelli. «Spesso, invece, – osserva il Papa – prevale l’atteggiamento contrario: l’indifferenza, il disinteresse, che nascono dall’egoismo mascherato da una parvenza di rispetto per la sfera privata» (Messaggio, n. 1). L’altro, dunque, avrebbe il diritto a non essere disturbato da una nostra cortesia; in realtà, si tratta per lo più di un alibi per auto-giustificare la nostra indolenza, la fatica che costa ad aprirsi magari per primi all’altro, in pratica «la nostra anestesia spirituale» (ib). Vorremmo starcene per conto nostro, perché gli altri sono un impegno. Non così però vuole il Signore: gli altri ci appartengono, sono parte della comune umanità, così che «il prestare attenzione» include la premura anche per il bene spirituale. Ma proprio questo aspetto rischia di essere maggiormente avulso dalle nostre abitudini. Un falso senso del rispetto ci ha indotto a trascurare – annota il Papa – la pratica dell’ammonimento verso chi sbaglia, che la Chiesa considera a tutt’oggi un’opera di misericordia spirituale. Gesù stesso ha – non a caso – comandato la pratica della correzione fraterna. Abbiamo paura di una replica brusca, dell’essere a nostra volta tacciati di fare uguale, oppure, per preservarci la possibilità di farlo in futuro, pensiamo sia meglio trattenerci. Viene come a prosciugarsi il senso della responsabilità per la salvezza spirituale dell’altro, la quale però riguarda la mia stessa salvezza: «Riducendo la vita alla sola dimensione terrena, non la (si) considera in prospettiva escatologica e (si) accetta qualsiasi scelta morale in nome della libertà spirituale» (ib n. 2). Grazie all’Eucarestia noi siamo compenetrati con Cristo, ma anche tra di noi: la nostra esistenza è correlata con quella degli altri: «Sia il peccato, sia le opere di amore hanno anche una dimensione sociale» (ib). Per questo si è autorizzati a rovesciare la famosa affermazione sartriana: «L’inferno sono gli altri», nel suo opposto: gli altri sono parte del mio paradiso quaggiù. Tale declinazione dell’impegno ad amare gli altri fino a correggerli è l’opposto dell’arroganza o dell’ipocrisia. Piuttosto è una forma audace di umiltà: virtù, questa, «che nel catalogo delle virtù precristiane non appare; (l’umiltà) è una virtù nuova, la virtù della sequela di Cristo [...] : non pensare in grande di se stessi, avere la misura giusta» (Benedetto XVI, Lectio Divina nell’incontro con i Parroci di Roma, 23 febbraio 2012). Fa sorridere mettere il proprio “io” al centro del mondo. C’è molto realismo, e molta saggezza di vita anche personale, nelle riflessioni che il Papa avanza: «L’umiltà è soprattutto verità, vivere nella verità, imparare la verità, imparare che la mia piccolezza è proprio la grandezza» (ib). Riconoscersi come «un pensiero distinto» di Dio al pari di ogni altro, significa accettare di essere se stessi nel posto in cui si è, per accettare l’altro nel posto in cui egli si trova: insieme fili del «grande tessuto divino», note della «grande sinfonia della Chiesa». E Benedetto XVI candidamente aggiunge: «Io penso che le piccole umiliazioni, che giorno per giorno dobbiamo vivere, sono salubri, perché aiutano ognuno a riconoscere la propria verità, ad essere così liberi dalla vanagloria che è contro la verità e non mi può rendere felice». Rende inquieti, e non fa trovare pace.
 
LA «PACIFICA OFFENSIVA» DEL PAPA2. Nonostante il clamore che ciclicamente sfiora la comunità dei credenti, a motivo magari di qualche sgradevole episodio che sconvenientemente vorrebbe coinvolgerla, Benedetto XVI persegue la propria opera finalizzata alla riforma interiore della Chiesa. In occasione del recente Concistoro pubblico poneva una serie di antinomie, come ad immaginare il ritrovarsi collettivo dinanzi a dei bivi: «Dominio e servizio, egoismo e altruismo, possesso e dono, interesse e gratuità: queste logiche profondamente contrastanti si confrontano in ogni tempo e in ogni luogo. Non c’è alcun dubbio sulla strada scelta da Gesù: Egli non si limita ad indicarla con le parole ai discepoli di allora e di oggi, ma la vive nella sua carne» (Discorso per la Creazione di nuovi Cardinali, 18 febbraio 2012). Appena qualche settimana prima spiegava che spesso, per l’uomo comune come per quello importante, «l’autorità significa possesso, potere, dominio, successo. Per Dio invece l’autorità significa servizio, umiltà, amore; significa entrare nella logica di Gesù che si china a lavare i piedi ai discepoli» (Saluto all’Angelus, 29 gennaio 2012). E citava Romano Guardini: «L’intera esistenza di Gesù è traduzione della potenza in umiltà… è la sovranità che qui si abbassa alla forma di servo» (Il potere, Brescia 1999, 141-142). Non so se sia del tutto appropriato, ma verrebbe da dire che in questo periodo c’è come una sorta di “pacifica offensiva”, da parte di Benedetto XVI, per convincere che il primato è degli umili, in quanto solo nella testimonianza concreta dell’umiltà la fede può attecchire e tornare a risplendere. Colloquiando con i Seminaristi di Roma sulla Lettera ai Romani, ha avuto un passaggio fulminante: «Anche oggi si parla molto della Chiesa di Roma, di tante cose, ma speriamo che si parli anche della nostra fede, della fede esemplare di questa Chiesa» (Visita al Pontificio Seminario Romano Maggiore, 15 febbraio 2012). Ecco il suo e nostro assillo: la fede, che in vaste zone della terra «corre il rischio di spegnersi come una fiamma che non trova più alimento […] e che costituisce la più grande sfida per la Chiesa di oggi. Il rinnovamento della fede deve quindi essere la priorità nell’impegno della Chiesa intera ai nostri giorni» (Benedetto XVI, Discorso alla Plenaria della Congregazione per la Dottrina della fede, 27 febbraio 2012). Di qui il suo farsi banditore dell’Anno della Fede come della circostanza promettente che ci sta dinanzi e domanda una disponibilità piena da parte delle Chiese locali. Non è e non potrà risolversi in una mera manutenzione pastorale, e neppure in un dispiegamento iper-organizzativo della medesima pastorale. Sarà in primo luogo un interrogarsi in profondità su chi è Gesù Cristo per noi, per noi che viviamo in contesti da secoli segnati dal cristianesimo, eppure ci ritroviamo oggi svagati e saturi di mille altre cose. In fondo, era qualcosa di previsto dallo stesso Concilio, quando – nell’Ad gentes, al n. 6 – avvertiva che spesso «i gruppi umani, in mezzo ai quali opera la Chiesa, cambiano radicalmente, donde possono scaturire situazioni del tutto nuove». Individuati i livelli di fede, vanno formulate proposte a ciascuno adeguate, purché in grado di toccare il cuore. Dobbiamo far tornare il Trascendente nell’orizzonte dei nostri contemporanei, invitandoli a sviluppare nuovamente la capacità di percepire Dio. A ciascuno noi annunciamo il Signore della vita e della storia, della tua vita e della tua storia, l’amico che ti prende per mano e ti offre la chiave per sciogliere le inquietudini dell’esistenza, ti trae a sé e, lasciandoti sempre libero, ti tiene stretto, affinché tu non abbia a temere nulla. È noto come, oltre alla lettera apostolica Porta Fidei, emessa per l’indizione dell’Anno della fede, sia già stata pubblicata una Nota a cura della Congregazione per la Dottrina della Fede contenente una serie dettagliata di indicazioni pastorali preziose per la traduzione dell’iniziativa diocesi per diocesi, parrocchia per parrocchia.
 
Il cinquantesimo anniversario dall’avvio del Concilio Vaticano II, in calendario per il mese di ottobre, e su cui torneremo nei prossimi appuntamenti, andrà vissuto precipuamente in questa prospettiva cristologica: Gesù al centro della Chiesa e al centro della nostra vita. L’analfabetismo religioso è evidente, e d’altra parte dietro l’esigenza del credere c’è anche un desiderio di sapere, di conoscere. Osservava il Papa: «Rinnoveremo il Concilio solo rinnovando il contenuto – condensato poi di nuovo – del Catechismo della Chiesa cattolica». Nostro compito sarà allora quello di risalire dal corpus conciliare verso la sorgente teologale, e lì anzitutto sostare in una contemplazione d’amore. L’evento promosso dal Comitato per il Progetto Culturale su «Gesù nostro contemporaneo» ha rappresentato per la Chiesa italiana un momento forte di annuncio circa la storicità di Cristo, come base attendibile della sua contemporaneità per ogni generazione.
 
IRRINUNCIABILE NON CONFORMISMO3. Ci siamo riferiti in precedenza alla Lettera ai Romani: la riprendiamo per raccogliere l’altro invito paolino: «Non conformatevi a questo mondo, ma lasciatevi trasformare, rinnovando il vostro modo di pensare» (12,2). C’è un non-conformismo che è irrinunciabile: «Il non conformismo del cristiano – assicura il Papa – ci redime (…) perché ci restituisce alla verità» (Lectio Divina cit.), alla verità delle cose, delle situazioni. Si è anti-conformisti per non sottostare alle letture vincenti quando non ci convincono, e per non lasciarci omologare. Dobbiamo esserlo anche in risposta alla paura che la gente avverte per la situazione di crisi in cui oggi si trova, la più grave dal dopo-guerra. Tale condizione di paura oggi è evidente e va fatta evolvere per uscirne migliorati, più forti spiritualmente e più attrezzati umanamente. Dando per scontato purtroppo che la crisi non si risolverà né all’improvviso né troppo in fretta, dobbiamo, insieme alle nostre abitudini, modificare il nostro modo di pensare. C’è bisogno di una visione forte e condivisa che probabilmente ha il suo punto di inizio nella riscoperta del bene comune come “universale concreto”. Quel bene che ad un certo punto forse avevamo smarrito in quanto ci sembrava il bene di nessuno, o avevamo scambiato per la mera somma dei singoli processi individuali, deve per ciascuno diventare invece il proprio bene personale. Solo una generale conversione di mentalità che comporti conseguenze vincolanti – ad esempio, sul fronte del fisco, di un reddito minimo, di un welfare partecipato, di un credito agibile, insomma di un civismo responsabile – può ricreare quel clima di fiducia che oggi sembra diradato o dissolto. Un clima che sollecita e motiva l’affidamento reciproco. L’altra sfida è riconsegnare un profilo forte alla nostra comunità, quella nazionale, e che si rifrange nei mille territori. Parlo di “profilo”, perché come ogni persona ha il proprio volto e questo la caratterizza, così la società intera deve resistere alla tentazione di smarrire i propri connotati caratteristici. L’individualismo, infatti, quando diventa cultura diffusa, induce a schiacciare il profilo e il diritto sul versante soggettivo, quasi che l’identità collettiva potesse essere la somma aritmetica del benessere individuale. Ma la storia e l’esperienza dicono che non è così; che esistono anche i soggetti comunitari – come la famiglia, le diverse aggregazioni, i corpi intermedi… – che hanno dei loro profili specifici, e non sarebbe senza significato mutarli, poiché cambierebbe di conseguenza il tipo di ambiente, il tessuto sociale nel quale ciascuno vive. Anche la nazione ha un proprio volto, che non è un assemblaggio di tanti volti individuali, ma corrisponde ad una visione antropologica, composta di principi e valori. Non è indifferente infatti vivere in una società che, ad esempio, non rispetta e non promuove il valore indisponibile della vita umana, specie nei momenti di maggiore fragilità, come l’inizio e la fine. Oltre la misericordia e la solidarietà individuali, esistono anche una misericordia e una solidarietà dello Stato in quanto tale: vivere in un contesto sociale e legislativo ispirato al rispetto, alla compassione e alla partecipazione verso i più deboli, è assai diverso dal vivere in un ambiente intriso di atteggiamenti che vanno in senso opposto. Il volto della persona è decisivo, ma il volto della società e dello Stato non è da meno proprio per il bene delle persone. Quale tranquillità può garantire uno Stato che permette – se non addirittura promuove – l’aborto, l’eutanasia, il suicidio assistito, l’infanticidio e altro ancora? Qualcuno potrà pensare che nessuno da noi immagina certe aberrazioni, ma quando il piano è stato volutamente inclinato, chi può prevedere e guidare la deriva? Il limite sarà spostato sempre oltre. Anche se a nessuno viene imposto nulla, ma solo consentito, quale certezza in ordine all’accoglimento della vita fragile e alla solidarietà nelle fasi dolorose potrà essere a tutti garantita? Quale grado di umanesimo altruista potrà essere assicurato? Chi scorge l’umanità anche dove essa è più nascosta e più debole, più facilmente saprà riconoscerla quando è più evidente. Quando poi si dimentica il volto unico di ciascun fratello, si arriva a quella criminalità di strada che purtroppo sta infestando anche le nostre città.
 
PRENDERE SUL SERIO LE NUOVE GENERAZIONI4. Siamo profondamente persuasi che i giovani di oggi siano in grado di dare una spinta decisiva al cambio di passo del nostro Paese. La conoscenza che abbiamo di loro e del loro entusiasmo, la consuetudine con i loro ragionamenti, la partecipazione alle loro mortificazioni, l’ascolto della loro rabbia, ci inducono a ricordare che non si possono tradire: sono indispensabili oggi, non solo domani. Loro peraltro sono i primi ad intuire che questo Paese non si ama a sufficienza, quando avvertono che non vengono prese sul serio le generazioni con maggiore spinta innovativa. Eppure, dal mondo degli adulti e dalle loro organizzazioni, stenta ad emergere una disponibilità al riequilibrio delle risorse che sono in campo. È una strana congiuntura quella in cui ci troviamo: i padri, lottando, hanno ottenuto garanzie che oggi appaiono sproporzionate rispetto alle disponibilità riconosciute ai loro figli. Per questo, è ai giovani che va detta ancora una parola. Nonostante la precarietà che sta segnando la loro giovinezza, non possono rinunciare a costruirsi come persone stabili, interiormente solide, capaci di idealità e dunque resistenti alle sfide. Troppi giovani non reggono agli urti emotivi e compiono atti inconsulti, rispetto ai quali poi vorrebbero rimediare semplicemente pentendosi o chiedendo scusa. Ma è tardi! È la percezione della realtà, della misura, dell’irrevocabilità degli atti, la capacità di assumere le conseguenze di quel che si compie, ciò che a volte difetta in loro. Né il modello di adulto in voga, per la verità, sembra aiutarli a sufficienza. È indispensabile, infatti, apprendere la cura più decisiva, quella di sé, che non ci si procura dinanzi allo specchio, con la ricerca spasmodica della visibilità, ma si conquista guardandosi dentro, facendosi magari aiutare da qualche maestro dell’anima. Cari giovani, non troverete probabilmente molti disposti a dirvelo, noi però avvertiamo la responsabilità di farlo: stiamo andando verso una società nella quale sempre di più conterà la formazione completa, e non solo dunque scolastica e professionale, la formazione cioè della vostra umanità; conterà l’esercizio ripetuto di determinate scelte, la rifinitura delle stesse, fino a quando, ad un certo momento, diventeranno habitus personale, disposizioni stabili, qualità o virtù che dir si voglia. Si tratta di elementi che solitamente non figurano nei curricula cartacei, e tuttavia emergono abbastanza presto, perché con la vita non si può barare: vale assai più lo sforzo che il successo, conta più l’abitudine alla fatica che la rifinitura estetica. E comunque i veri vittoriosi sono i galantuomini, non i vincenti con l’imbroglio.
 
IL VALORE DELLA FAMIGLIA E DELLA DOMENICA5. L’altro pilastro su cui vorremmo spendere una parola è la famiglia. Con nostro stupore sono affiorati sulla stampa nazionale temi del tipo: «La famiglia? Un fardello da cui liberarsi», in quanto creerebbe «alle persone più problemi che altro». Tesi sbalorditiva! Non basta la deriva sociale riscontrabile in Occidente – dove le prime vittime sono i figli – quale esito di una società senza riferimenti certi e con una genitorialità interpretata con approssimazione, che alcuni si ostinano a teorizzare ancora pur avendo palesemente fallito? Si può non mettere nel conto che il carattere della stabilità è esigenza intrinseca e genuina dell’amore? Sembra che ci si sia fatalmente abituati all’idea dell’usura dell’amore, per cui il sentimento va bene, ma il giuramento d’amore non più. La stabilità sarebbe sostituita – si pensa illudendosi – dall’intensità. Come poi questi sentimenti siano consapevolmente identificabili, al punto da poterli sezionare, resta un punto insondato. Non è retorica affermare che l’amore ha intrinsecamente e razionalmente in sé l’esigenza del “per sempre”. Una recentissima indagine condotta in Italia fa emergere che le persone che vivono con convinzione il loro essere famiglia sono mediamente anche le più felici. Sorgono talora difficoltà, e dinanzi agli imprevisti più gravi taluno decide purtroppo di non riprovare, ma è una resa che di per sé non cambia le esigenze che sono intrinseche al vero amore. Come non lo rafforza tutto ciò che infragilisce il matrimonio, ivi compreso il cosiddetto divorzio breve. In una cultura del tutto-provvisorio, l’introduzione di istituti che per natura loro consacrino la precarietà affettiva, e a loro volta contribuiscano a diffonderla, non sono un ausilio né alla stabilità dell’amore, né alla società stessa. La famiglia non è un aggregato di individui, o un soggetto da ridefinire a seconda delle pressioni di costume; non può essere dichiarata cosa di altri tempi. Essa affonda le proprie radici nella natura stessa dell’umano, e quindi della storia universale: vi troviamo, infatti, il vincolo dell’amore fedele, tra un uomo e una donna che si scelgono, con il sigillo della comunità, grazie al quale la famiglia stabilisce un rapporto di reciprocità virtuosa, grembo della generazione dei figli, dono e ricchezza dei genitori, come della società stessa. Diceva il Papa qualche settimana fa: «L’unione dell'uomo e della donna in quella comunità d’amore e di vita che è il matrimonio, costituisce l’unico “luogo” degno per la chiamata all’esistenza di un nuovo essere umano» (Discorso all’Assemblea della Pontificia Accademia per la vita, 25 febbraio 2012). Prima e più dei diritti veri o presunti degli adulti, ci sono i diritti dei bambini: avere un padre e una madre certi, dunque una famiglia caratterizzata non da confini precari e da tempi incerti, ma definita e permanente, nella quale imparare ad aver fiducia in se stessi e negli altri, a dare il nome giusto alle cose, a distinguere il bene e il male, a bilanciare doveri e diritti.
 
Né possiamo tacere – anzi, lo ripetiamo con preoccupata convinzione – il valore intrinseco della domenica, giorno nel quale non solo ci si riposa dal lavoro, ma la famiglia si ritrova insieme con ritmi più distesi, asseconda le proprie consuetudini e – se credente – partecipa con la comunità cristiana alla liturgia del Signore. Per tali valenze antropologiche, la domenica non può essere sacrificata a ragioni economiche. I valori appena ricordati, legati al giorno domenicale, appartengono all’ordine di quei beni che non sono monetizzabili, eppure appartengono al bene comune che lo Stato ha il compito di perseguire. Nel caso contrario, si perde in coesione: ma non solo come famiglie, quanto – e di conseguenza – come società tutta, che non diventa fatalmente più efficiente e produttiva, bensì meno coesa e forse solamente più agitata. Nel riposo domenicale, infatti, non s’incontrano meramente i componenti di una medesima famiglia, ma le persone e le famiglie tra loro: è la vita comune che si esprime e si rafforza nel segno dell’incontro, del riposo che ricrea, dello svago legittimo, della preghiera che rafforza, della solidarietà e del dono vicendevoli. L’incontro mondiale delle famiglie, in programma a Milano dal 30 maggio al 3 giugno, al quale ogni diocesi è sollecitata ad inviare una propria rappresentanza, sarà soprattutto una festa, un riconoscere da ogni angolo del mondo il valore esaltante della famiglia, e le condizioni per quel riscatto antropologico che essa consente nella temperie odierna.
 
«PIANO INCLINATO» E DIALOGO LAICI-CATTOLICI6. Un’altra tesi è emersa nelle ultime settimane, la legittimazione dell’infanticidio, assurdamente presentata in riviste scientifiche internazionali: in sé qualcosa di aberrante, se non addirittura di mostruoso. Per questi studiosi, di origine italiana, quello che secondo loro si può fare sul feto, ossia l’aborto, sarebbe possibile anche sul bambino appena nato. E perché anche non successivamente? Così, in breve, dall’interruzione volontaria della gravidanza, di cui è ineluttabilmente vittima un bambino che deve ancora nascere, si passerebbe all’eutanasia di questi una volta nato. A proposito infine di eutanasia, va registrata purtroppo un’altra tesi preoccupante, nel frattempo apparsa pure in sede scientifica internazionale: la nutrizione e l’idratazione dovrebbero essere sospese a tutti i pazienti in stato vegetativo permanente, salvo che non ci sia l’evidenza di una volontà esplicita del soggetto gravemente ammalato. Siamo cioè all’inaccettabile rovesciamento della prospettiva di quanto in Italia prevede il disegno di legge che, approvato alla Camera, attende l’auspicabile sì del Senato.
 
Naturalmente noi siamo gli ultimi interessati a fare del sensazionalismo su simili temi, e tuttavia ci corre l’obbligo in coscienza di rilevare come certe ipotesi, che fino a ieri neppure affioravano alla mente umana, sembra che non generino oramai alcun raccapriccio sociale, alcuno scandalo generale. L’immagine già citata del piano inclinato, imboccato il quale è poi difficile fermarsi, è stato per anni un argomento rifiutato. Oggi gli effetti di quel rifiuto rischiano di essere esiziali. Ci rendiamo conto naturalmente che in un frangente culturale in cui si torna a brandire la dissoluzione della realtà, la negazione radicale di qualsiasi ipotesi di verità, quanto appena enunciato si trova pienamente in linea. Quando la volontà dei singoli prende il sopravvento sulla conoscenza delle cose, essa violenta la realtà fino a negare – come sta accadendo – le evidenze che accomunano gli uomini. «Il sonno della ragione genera mostri» è stato giustamente detto; ma nel nostro tempo più che dormire, la ragione sembra piegarsi alla tracotanza individuale, la quale anziché adeguarsi alla realtà, pretende sia la realtà ad adeguarsi ad essa. Ma di questa volontà di potenza – di condizionamento e di propaganda – magistralmente sostenuta e diffusa dal pensiero unico, ormai si va criticamente prendendo atto anche in ambienti certo non confessionali, e questo è segno di speranza. Per i cattolici in particolare, è un ulteriore motivo per stare dentro al dibattito generale, e contribuirvi lealmente. Non è vero che si è esaurita la stagione del confronto laici-cattolici, come qualcuno ciclicamente obietta; piuttosto è vero che in questa ricerca si gioca la più alta avventura della coscienza umana. Non ci sono vite non degne: che si tratti di bambini down, o disabili gravi, o malati psichici di difficile gestione, o malati terminali. Non esistono ragioni economiche per sopprimere o abbandonare una vita malata. Sarebbe la barbarie. Quando nel dibattito pubblico arriva l’eco di discussioni – sperando che solo di queste si tratti – che avverrebbero in taluni nosocomi del nostro Paese dove, per esigenze di budget, si vorrebbero rifiutare cure costose a beneficio di chi non ha più realistiche prospettive di vita, è il momento della massima all’erta, quello in cui stanno indebolendosi i presidi dell’umano, e si capisce che cosa vale in concreto la vita di ciascuno di noi. Nessun accanimento – possiamo convenirne –, ma neppure sentenze sbrigative, negligenti, o rinunciatarie in partenza.
 
RICREARE SICUREZZA, RINNOVARE, RILANCIARE7. Il Paese, come il resto dell’Europa, è in sofferenza: non si può negarlo. Le parrocchie e le formazioni sociali che vivono a contatto con la gente lo constatano ogni giorno. Tutto rincara e il budget familiare diminuisce. Cambiano così le abitudini, si rivede l’ordine delle scelte. Con i provvedimenti adottati è stato portato al sicuro il Paese, facendo proprie – pur con qualche adattamento – le indicazioni comunitarie. Bisogna però che si approfitti il più possibile di questa stagione, in cui si è costretti a dare una nuova forma ai nostri stili di vita: uscire dall’immobilismo; cominciare a fare manutenzione ordinaria del territorio; continuare nella lotta all’evasione fiscale; semplificare realmente alcuni snodi della pubblica amministrazione; dotarsi di strumenti pervasivi e stringenti nel contrasto alla corruzione e al latrocinio della cosa pubblica. Soprattutto, azionare tutti gli strumenti e investire tutte le risorse a disposizione – dello Stato, dell’imprenditoria, del credito, della società civile – per dare agli italiani, a cominciare dai giovani, la possibilità di lavorare: non solo per sopravvivere, ma per la loro dignità. Ma anche approfittarne per rinnovare i partiti, tutti i partiti: non hanno alternativa se vogliono tornare – com’è fisiologico – ad essere via ordinaria della politica ed essere pronti – quando sarà – a riassumere direttamente nelle loro mani la guida del Paese. Per intanto dal Governo sono attese soluzioni sospirate per anni. Come Vescovi chiediamo di tenere insieme equità e rigore. La congiuntura ci deve migliorare, non appiattire e ancor meno schiacciare. Si dovrà probabilmente lavorare molto prima di tornare a vedere risultati importanti, ma quel che conta sono i segnali affidabili e concreti che devono arrivare dalla classe dirigente. Senza uscire dal novero delle nazioni industrializzate, anzi preservando nella ragionevole flessibilità gli insediamenti che coltivano le specificità e le eccellenze, dobbiamo perseguire un’economia sociale di mercato, nella linea della cooperazione e dei sistemi di un welfare condiviso. Il modello economico perseguito lungo i decenni dal nostro Paese è stato ed è una prodigiosa combinazione tra famiglia, impresa, credito e comunità. È l’insieme che va reinterpretato e rilanciato, recuperando stima nelle imprese familiari e locali, a cominciare da quelle agricole e artigianali. Nella realtà odierna nessuno può pensare di preservare automaticamente delle rendite di posizione. Bisogna sapersi misurare con le mutazioni incalzanti che costringono ad un pensare nuovo. Bene sommo è la persona, e la persona che lavora; per questo vanno create le condizioni perché le opportunità di impiego non sfumino, e con esse le abilità manageriali e i capitali necessari all’impresa. La globalizzazione è una condizione ineluttabile, con aspetti che, se non governati, possono modificare radicalmente i destini di un popolo: per questo dobbiamo starci dentro con la nostra cifra sociale, superando con la necessaria gradualità gli strumenti che sono inadeguati, per raggiungere, nelle condizioni date, la soluzione meglio condivisa. È necessario affrontare i singoli problemi nell’orizzonte di una strategia di fondo. Con animo sgombro da pregiudizi, si tratta di riconoscere ciò che effettivamente segna un avanzamento, quale che sia il soggetto proponente. Ora la strada e il tempo del confronto vanno percorsi fino in fondo, con onestà intellettuale e indistruttibile fiducia nel comune desiderio di riuscire nell’impresa.
 
POVERTA’, CHIESA E RETI DI PROSSIMITA’8. Da diversi ambienti giungono voci che riconoscono e incoraggiano l’iniziativa della Chiesa a fronte dei bisogni crescenti. Tra questi, scorgiamo la povertà alimentare, di alloggio, di medicine. Noi Pastori accogliamo questi appelli che si moltiplicano anche da aree fino a ieri sufficienti; siamo grati per i riconoscimenti, anche se la Chiesa non li cerca agendo anzitutto per fedeltà al proprio Signore, consapevole della propria bimillenaria esperienza di evangelizzazione e promozione umana. Nessuno peraltro può dubitare di questa presenza discreta e quotidiana, sostenuta dall’amore a Cristo e al mondo: la fede genera carità e la carità nasce dalla fede. I riconoscimenti raccolti li trasmettiamo naturalmente ai nostri amati sacerdoti e diaconi, ai consacrati e al grande stuolo dei volontari delle parrocchie e delle aggregazioni laicali che quotidianamente sono riversi sul servizio della carità. A loro diciamo la nostra parola di incoraggiamento per intensificare – insieme – ogni ulteriore sforzo e generoso impegno, affinché si rafforzi il reticolo di solidarietà che manifesta la maternità della Chiesa. Mentre la crisi perdura, chiediamo che sollecitamente si avvii la sospirata fase di ripresa e degli investimenti in grado di creare lavoro, che è la priorità assoluta. L’approccio finanziario, infatti, senza concreti e massicci piani industriali, sarebbe di ben corto respiro. Solamente ciò che porta con sé lavoro, e perciò coinvolge testa e braccia del Paese reale, ridà sicurezza per il presente e apre al futuro. Perché questo accada, è necessario che lo Stato e gli enti locali siano solventi e lungimiranti e gli istituti bancari non si chiudano in modo indiscriminato alle richieste di piccoli e medi imprenditori: non ogni ristrutturazione va valutata con diffidenza; è necessario considerare, caso per caso, situazioni e persone, l’onestà insieme all’affidabilità, e alla quota di controllabile rischio senza il quale non può darsi alcun salto nella crescita. C’è bisogno – e questo è il momento – che la gente ritrovi l’entusiasmo per le relazioni e si rimetta assieme in modo creativo per far girare il ciclo del lavoro. Gioverà poi memorizzare gli insegnamenti di questa stagione che dovranno persistere anche oltre la stretta. Mi riferisco alla capacità di sacrificio e di adattamento, virtù dell’anima che talora, nell’abbondanza, sembra venir meno, senza essere finora mai scomparsa, tanto da riemergere come riserva preziosa. In secondo luogo, l’energia scaturente dai vincoli familiari, supporto indispensabile nelle emergenze, sostegno che mentre dà educa, e mentre educa non lascia mai soli. Anche in questo tornante stretto della vicenda nazionale sono state le famiglie a rivelarsi punto di forza che, nel momento del bisogno, hanno saputo spremere il meglio di sé e sorreggere l’intero sistema. Quindi l’attitudine al risparmio, anche piccolo, che in certi momenti viene irriso con sufficienza per essere meglio depredato dalla cultura dello spreco, quando invece è risorsa semplice e benefica nelle fasi di congiuntura. Infine, la tenuta delle reti di prossimità e pronto intervento che, grazie anche alla provvidenza dell’otto per mille, la comunità cristiana assicura indistintamente ad utilità di tutti. Senza dire poi dell’esito rigenerante che ha l’atteggiamento dell’accoglienza, in risposta alla fame di relazioni e di compagnia. Ci sono condizioni che solo l’abbraccio genuino può sciogliere in chi è paralizzato dalla paura e dalla solitudine. Solamente chi ha sperimentato l’abbraccio fraterno e incondizionato che scatta spontaneo dal tessuto di una comunità – seppur non risolve d’incanto i problemi concreti – può lenire le ferite dell’anima, stemperare il risentimento, riaccendere la fiammella della fiducia, rinnovando energie esauste.
IL PERDURANTE CONTRIBUTO DEI CATTOLICI 9. Sul contributo perdurante – e semmai intensificato – dei cattolici al difficile momento della Nazione e dell’Europa non è dato di dubitare. Viva è la coscienza della «responsabilità verso il prossimo (che) significa […] volere e fare il bene dell’altro» (Benedetto XVI, Discorso ai soci del Circolo San Pietro, 24 febbraio 2012), e degli altri, di tutti gli altri, secondo una logica del tutto inclusiva. Si continua – mi pare – lungo la strada intrapresa, magari con meno clamore, eppure puntando ad una reale efficacia, sviluppando le iniziative che i vari soggetti aggregativi decidono liberamente di assumere sul versante eminentemente politico. Sul fronte ecclesiale, e sul crinale in cui l’ecclesialità si intreccia con la socialità, osserviamo che il confluire delle associazioni e dei movimenti di ispirazione cristiana nei tre organismi da tempo attivi – il Forum delle Associazioni familiari, Retinopera e Scienza & Vita – prosegue in termini di confronto su tematiche nodali per l’impegno dei laici. A questi si aggiungono le scuole di impegno socio-politico che, proprio agli inizi di questo mese di marzo, hanno avuto un importante momento di confronto nazionale, e che sono espressione dell’inventiva pastorale e formativa della Chiesa. Queste scuole intendono realizzare, rispetto alla presenza dei cattolici sul territorio, un accompagnamento che fornisca il sostegno culturale e morale necessario, un accompagnamento appropriato perché mai deve dividere le comunità, né renderle di parte, né esporle a possibili strumentalizzazioni. Si intende elaborare ora una sorta di modello ideale di scuola che sia di riferimento e indicazione, persuasi tutti noi che la formazione richiede organicità, articolazione disciplinare, metodo di maturazione, percorsi di esperienza in cui il rapporto con la realtà è decisivo. L’ormai prossima beatificazione di Giuseppe Toniolo, esponente esemplare del laicato italiano, si pone come un’occasione speciale, non solo per rivisitarne la figura, ma per evidenziare gli elementi di quel ceppo da cui è derivato, per il nostro Paese, un cattolicesimo incisivo e fecondo. Siamo certi che sarà un evento di Chiesa e di popolo.Siamo lieti che alcuni temi lanciati in occasione del precedente Consiglio Permanente – per esempio la lotta al gioco d’azzardo – abbiano trovato una larga eco nell’opinione pubblica, grazie anche ai nostri mezzi di comunicazione sociale, cui va sempre il convinto sostegno della comunità cristiana. E ancora lieti siamo che il tema dell’Ici sui beni ecclesiastici abbia avuto un’evoluzione positiva, arrivando con sollecitudine ad un approdo soddisfacente che, eliminando le sia pur remote ma possibili zone d’ombra, indurrà a superare eventuali situazioni di ingiusto trattamento, sottraendo argomenti a polemiche sgradevoli e devianti, fondate talora su vere e proprie menzogne.
 
CRISTIANOFOBIA: INDICE CRUCIALE10. La nostra finestra resta costantemente aperta sul mondo, in particolare nelle zone di maggior criticità. Non si attenua certo la cristianofobia che caratterizza alcune regioni: dall’Egitto al Sudan, dal Pakistan all’Iraq, dalla Cina all’Indonesia, mentre in Nigeria continua uno scontro interreligioso inquietante e raccapricciante. Leggi anti-blasfemia, omicidi efferati e seriali, attacchi con ordigni esplosivi, mutilazioni, imprigionamenti immotivati, sparizioni, incendi, messa in fuga di interi gruppi… sono situazioni all’ordine del giorno, la cui gravità stride con la reticenza sospetta di una parte del sistema mediatico internazionale che sembra tanto sensibile a gruppi di pressione limitati seppur molto attivi, ma insensibile e sordo alla gravissima discriminazione religiosa presente in molte parti del mondo. Sentiamo come su di noi queste atrocità e solidarizziamo con quelle Chiese. La giornata dei martiri cristiani, in calendario per sabato scorso, ha quest’anno stimolato iniziative che meritano il nostro apprezzamento per la determinazione a fare uscire alla luce del sole un tema tanto cruciale. Non potremo avere pace fino a quando esso non sarà entrato sistematicamente nelle agende degli incontri internazionali, quale argomento-indice dell’effettivo rispetto dei diritti umani in un dato Paese. L’evoluzione delle cosiddette Primavere che hanno riguardato il Nord Africa, coinvolgendo l’equilibrio del Mediterraneo, interessa in modo forte e diretto il nostro Paese. E mentre desideriamo restare una Nazione aperta e ospitale, chiediamo che la stessa ospitalità sia a tutti garantita in quei Paesi ancora in via di assestamento. La Siria con i suoi scontri interni, Nazione carissima anche per le vestigia cristiane che essa custodisce, resta in cima alle nostre preoccupazioni. Il fenomeno raggelante dei bambini-soldato, tornato clamorosamente di attualità per le scoperte fatte nella Repubblica Democratica del Congo, ci documenta a quale grado di atrocità può arrivare il fanatismo interetnico e a quale livello di ignavia può attestarsi l’opinione pubblica internazionale. Anche il fantasma del terrorismo fanatico e razziale ha fatto la sua ricomparsa in Occidente, come a ricordarci un male che continuamente si rigenera e con sempre maggior lena va estirpato. Il mondo intero ci abita, è dentro la nostra anima, e noi lo presentiamo ogni giorno al Signore perché abbia pietà dei suoi figli. Più che mai vive e presenti risuonano le parole con cui i padri conciliari vollero far iniziare la Costituzione sulla Chiesa e il mondo contemporaneo: «Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore» (Gaudium et spes, n. 1).
 
Termino, cari e amati Confratelli, ringraziandovi per la vostra benevola attenzione, e attendendo ora i riscontri con cui vorrete ad essa reagire. Il pensiero delle nostre Chiese non ci abbandona. Per questo invochiamo su loro e i nostri sacerdoti, su noi stessi e i nostri Confratelli, sui lavori di questo Consiglio, la protezione di Maria e quella del suo Sposo Giuseppe, la cui festa abbiamo da poco celebrato.
 
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