sabato 10 febbraio 2018
In pieno ’68, sulla scia del Concilio, nasceva a Roma la Comunità presente adesso in 70 Paesi. Oggi la festa per l’anniversario con la Messa presieduta da Parolin
Papa Francesco con Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant'Egidio, nell'incontro ad Assisi del 2016 (foto archivio Sant'Egidio)

Papa Francesco con Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant'Egidio, nell'incontro ad Assisi del 2016 (foto archivio Sant'Egidio)

COMMENTA E CONDIVIDI

Se si chiede ad Andrea Riccardi che cosa sia la Comunità di Sant’Egidio, lo storico che l’ha fondata quando era un liceale spiega che è un’esperienza di «fede che porta a vivere la globalizzazione della fraternità e della solidarietà». Perché a cinquant’anni dalla nascita la Comunità sorta a Roma è diffusa in oltre settanta Paesi coinvolgendo 60mila persone. E il suo “carisma” è stato riassunto da papa Francesco in tre “p”: preghiera, poveri, pace. A cui si aggiunge quella particolare attenzione al dialogo ecumenico e interreligioso che continua a far soffiare nel mondo quello spirito di Assisi caro alla fraternità.

Oggi l’anniversario sarà celebrato alle 17.30 nella Basilica di San Giovanni in Laterano con una Messa presieduta dal segretario di Stato vaticano, il cardinale Pietro Parolin, cui sarà presente anche il premier Paolo Gentiloni. Tutto è iniziato in pieno ’68, un 7 febbraio, da un gruppetto di liceali guidato dall’allora 18enne Andrea Riccardi, studente del “Virgilio”, che si metteva in movimento avendo come bussole la Parola di Dio e l’aiuto agli ultimi. «Non è stato un parto ma un processo – spiega il fondatore –. Un processo che ha come sfondo due eventi che avrebbero avuto una lunga scia. Il primo è il Vaticano II che ridava la Parola nelle mani di tutti e trasmetteva il senso del popolo di Dio: suscitava anche fiducia nelle giovani generazioni, come testimonia il messaggio del Concilio ai giovani. E il secondo è la stagione di entusiasmo per il cambiamento innescato dal ’68, che ritengo abbia alimentato un senso di audacia ». Lo storico ricorda quanto era scritto sui muri della Sorbona a Parigi. «Nell’università della capitale francese si poteva leggere: “Siate realisti, cercate l’impossibile». A Sant’Egidio la ricerca dell’impossibile non è diventata utopismo vano ma si è incontrata con il Vangelo. E la fede in Cristo rende possibile l’impossibile ». Già, ma che cosa è l’impossibile? «Molto… È aiutare gli altri ad avere a una vita migliore; è far cadere i muri; è il miracolo della compassione», sostiene Riccardi riassumendo mezzo secolo di storia.

Una storia che agli albori ha avuto come cornice le borgate romane. «Dalla fine degli anni Sessanta è cominciata la nostra presenza nelle periferie della Capitale. Allora parlavamo di “periferie umane e urbane”. Erano il nostro riferimento assieme alla preghiera quotidiana, come quella di ogni giorno nella Basilica di Santa Maria in Trastevere o in tanti altri luoghi di Roma e del mondo in cui esiste Sant’Egidio». La Comunità prende il nome da un santo d’origine orientale. «Ma tutto è avvenuto per caso – ricorda l’ex ministro per la Cooperazione internazionale nel governo Monti –. Cercavamo un luogo di raccordo e l’abbiamo trovato nel cuore di Roma nei locali del monastero di Sant’Egidio che appartengono al ministero dell’Interno. Certo, il fatto che il santo morto in Occidente, nella Francia meridionale, sia anche protettore dei deboli è significativo per noi». Dai dimenticati di Roma lo sguardo della Comunità si è allargato alle “terre dei poveri”. «Negli anni Ottanta il mondo africano è entrato con forza nel nostro orizzonte, cominciando con il Mozambico. E poi il Medio Oriente con il complesso intreccio del dramma delle minoranze cristiane e della crisi dell’islam. In Africa abbiamo incontrato non solo la fame, ma soprattutto la guerra. È la guerra la madre di tutte le povertà. Così ci siamo chiesti se dovevamo solo assistere impotenti a tanto dolore. Da qui è scaturito l’impegno per la pace che da allora ci accompagna attraverso tante vicende».

Alla Comunità si deve la pace in Mozambico nel 1992 che, chiarisce Riccardi, «arrivò dopo un milione di morti e in due anni di trattative». Ciò rivela come la comunità cristiana «abbia una forza di pace, non fosse per l’insistenza della preghiera». Oggi sono numerose le richiese di aiuto e di mediazione che giungono a Sant’Egidio. «In questa fase siamo impegnati nella pacificazione della Repubblica centrafricana mediante il disarmo dei gruppi armati. Costruire la pace non contempla soltanto fermare chi combatte ma anche arginare le correnti di odio e disprezzo. Per questo penso che in un tempo di scontri di civiltà la missione di Sant’Egidio sia quella di rendere concreta la possibilità di vivere insieme, nelle nostre città come su scala mondiale». La Comunità è stata chiamata l’“Onu di Trastevere”. «È una definizione del giornalista Igor Man che mi piace e che mette in luce tre aspetti: la ricerca della riconciliazione, l’universalismo della nostra esperienza ma anche il suo carattere familiare», afferma Riccardi.

C’è poi il costante richiamo all’incontro fra le Chiese e le religioni. «È il dialogo di cui parla il Concilio ma è anche lo spirito di Assisi». E la mente del fondatore va al 1986 quando Giovanni Paolo II radunò nella città di san Francesco i leader religiosi del pianeta per pregare l’uno accanto all’altro. «Un’immagine che è l’icona della convivenza fra le religioni», sottolinea. Anno dopo anno Sant’Egidio ha alimentato lo spirito di Assisi con incontri o iniziative.«E nel 2016 abbiamo celebrato il trentennale con papa Francesco, mentre quest’anno saremo a Bologna. Nel nostro mondo globale che ha portato all’unificazione della finanza, delle comunicazioni, dei modelli antropologici, manca la ricerca di una comunione spirituale profonda. E lo spirito di Assisi guida in questo senso». I Papi hanno dimostrato vicinanza alla Comunità. «Sono grato a Giovanni Paolo II che ci è quasi venuto a cercare a Trastevere e ci ha sempre incoraggiato. Del resto la pastoralità di papa Wojtyla si è spesso espressa con quella fiducia e simpatia che ci hanno fatto crescere. Sentivo che stimava il nostro amore per i poveri. Ed era molto sensibile al tema dell’emarginazione degli anziani che rappresenta un servizio compiuto da molti anni. Poi ecco i nuovi martiri su cui abbiamo lavorato su ispirazione di Giovanni Paolo II aprendo la chiesa che lui ci ha dato per i trent’anni di Sant’Egidio, la Basilica di San Bartolomeo all’Isola Tiberina, oggi santuario dei martiri del XX e XXI secolo». Anche Benedetto XVI ha visitato più volte la fraternità. «Ricordo una frase che ci disse nella mensa quando partecipò a un pranzo con i poveri: “Qui si confonde chi serve e chi è servito”».

Infine papa Francesco. «Bergoglio – precisa il fondatore – conosceva bene le nostre attività a Buenos Aires. E adesso è il Papa del Vangelo in mezzo alla strada che ci sprona a uscire da ogni ripiegamento istituzionale e ad abbracciare la gente». Costante anche il rapporto con la Chiesa italiana, come mostra il progetto dei “Corridoi umanitari”. «È un’idea concepita qui e che si è sviluppata con la Cei per il Corno d’Africa e con gli evangelici italiani per i profughi siriani. Questa intuizione ha fatto strada e viene replicata in Francia, in Belgio, ma anche in Italia stessa. Dobbiamo aprire passaggi sicuri per consentire ai rifugiati di raggiungere l’Europa sottraendoli ai mercanti di vite umane. E dobbiamo lavorare per integrare».

Riccardi cita il presidente della Cei, il cardinale Gualtiero Bassetti, che nell’ultimo Consiglio permanente ha esortato a “rammendare” il Paese. «La nostra società è eccessivamente lacerata. Dobbiamo costruire ponti e riunire i frantumi. Nelle periferie si vivono cupe solitudini che talvolta si traducono in drammi e possono portare a pericolosi fondamentalismi, non solo quelli islamici, ma anche quelli europei che sono i nuovi fascismi, figli essenzialmente della paura». La Penisola andrà alle urne fra poco meno di un mese. «Alla politica italiana – conclude l’ex ministro – mancano visioni del Paese, classi dirigenti all’altezza e occasioni per avvicinare i giovani alla cosa pubblica. Le nostre democrazie sono malate ma restano preziose. Ormai esse sono minoranza nel mondo. Difendiamocele e facciamole crescere nella coscienza collettiva».

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: