giovedì 5 dicembre 2024
Parla l'arcivescovo di Santiago del Cile, tra i nuovi cardinali. Il suo impegno accanto alle famiglie dei “desaparecidos” durante la dittatura di Pinochet: «La Chiesa accanto a tutte le vittime»
Il prossimo cardinale cileno Fernando Chomali Garib mentre benedice alcuni fedeli durante la Messa coi giovani di Santiago di domenica scorsa

Il prossimo cardinale cileno Fernando Chomali Garib mentre benedice alcuni fedeli durante la Messa coi giovani di Santiago di domenica scorsa - .

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Fernando Chomalí Garib, 67 anni, non si stanca di ripeterlo: «È molto pericoloso affrontare la vita senza un quaderno e una penna». Perché la parola «quando arriva non chiede permesso», «non si rassegna fin quando non viene incisa sulla carta» e «dipanare nella materia la matassa dello spirito può rendere molto felice l’essere umano». In questo si manifesta il suo legame viscerale con la Parola: non si fa contenere in una segreta del cuore, irrompe nella realtà, rigenerandola con forza creativa. Il vescovo di Santiago del Cile, ingegnere civile, teologo, moralista ed esperto di bioetica – il suo maestro è stato il cardinale Elio Sgreccia – e discendente di una famiglia palestinese, è solito portare con sé un taccuino. Il “vescovo-poeta” lo chiamano affettuosamente i fedeli. O, meglio, lo chiamavano. Ora a Santiago – dove è arrivato l’anno scorso dopo avere guidato per dodici anni la diocesi di Concepción - è “il cardinale-poeta”: il 6 ottobre, papa Francesco ha annunciato il suo nome tra i ventuno nuovi porporati che saranno creati sabato.

Nel 2019, ha pubblicato Desde la plaza del alma (“Dalla piazza dell’animo”), una raccolta di versi sul significato dell’esistenza, la sofferenza, la forza di andare avanti. Un grido potente a un Dio che spesso sembra scomparire nei dolori dell’esistenza eppure c’è. «Tornò alla domanda sul passato e sul futuro. Arrivò perfino a interrogarsi su sé stesso. Abbattuto e invecchiato morì senza risposta. Il tempo si prese cura di tutto. Anche di», scrive nella prima delle 151 poesie che compongono il libro. Chomalí, però, è anche autore di due pièce teatrali – Un hombre por catálogo e Al final – nonché del documentario Mercoledì 15.30. Ricordi dell’assenza, storia di tre donne che, mezzo secolo dopo, continuano a cercare i loro cari desaparecidos durante la dittatura di Augusto Pinochet. «Portando una goccia di splendore nel mondo, l’arte aiuta a rendere visibile il volto del Padre», afferma.

Che cosa rappresenta per lei l’arte?

«È parte della mia vita da sempre. L’ho imparato da mio padre che aveva grandi doti artistiche ed era un appassionato collezionista di opere d’arte. La bellezza, la proporzione, il colore, l’armonia sono valori che custodisco nel cuore e che sono stati ragione di molta gioia e molta preghiera. L’arte è un modo privilegiato di esprimere un messaggio. La considero una forma moto potente di evangelizzare poiché qualunque essere umano è aperto alla bellezza e questa lo conduce a Dio».

Papa Francesco ha, di recente, scritto una lettera sul ruolo della letteratura nella formazione. L’ha colpita?

«Mi ha profondamente commosso. Il Papa è convinto che la ragione umana sia scientifica, etica ed estetica ed è un accanito lettore di romanzi e poesie. Ha una straordinaria sensibilità sul tema come ho potuto constatare parlandogli. Per questo mostro spesso il suo scritto a vari artisti con cui ho un dialogo fraterno, soprattutto con i non credenti».

Francesco ha letto le sue poesie?

«Gli ho regalato la raccolta, spiegandogli che avevo composto quei versi in un momento molto triste. E lui mi ha risposto con un messaggio scritto di suo pugno in cui mi raccontava di averlo letto con curiosità e una certa avidità durante alcuni giorni di “vacanze romane”. Mi ha, infine, ringraziato di averlo pubblicato. “Dopo averli letti, posso assicurarti che faranno molto bene e, oltretutto, sono belli”, ha aggiunto. È stato un gesto di grande delicatezza».

E il documentario, invece, da dove nasce?

«Quando sono diventato vescovo di Concepción, nel 2011, un gruppo di donne, i cui familiari erano scomparsi durante il regime militare, mi hanno chiesto di potersi riunire in una sala dell’arcivescovado il mercoledì alle 15.30. Ovviamente ho acconsentito. Pian piano ho conosciuto loro e le loro storie che mi hanno toccato per l’autenticità. Il dolore umano non smette di toccarmi. Mi commuove la sofferenza delle donne e degli uomini. E mi commuove vedere la Chiesa al loro fianco, intenta a lenirne il dolore, cercando verità e giustizia. Quando si avvicinava il cinquantesimo anniversario del golpe, così, ho proposto loro di realizzare un documentario che le raccontasse. È nato, dunque, Mercoledì 15.30 che abbiamo presentato in molti Paesi, dall’Australia alla Spagna, da Roma a buona parte del Cile. Ogni volta produce molte emozioni: alla fine della proiezione, il pubblico resta in silenzio per qualche minuto».

Come ha saputo della sua creazione a cardinale?

«Alle 7.32 del mattino ho ricevuto la telefonata del giornalista spagnolo Jesús Bastante: aveva appena ascoltato l’Angelus della domenica e voleva farmi gli auguri».

Come riceve la porpora?

«È un atto di fiducia del Santo Padre nei confronti della Chiesa cilena e della mia persona. Mi dà l’opportunità di essere più vicino al governo della Chiesa a cui ho dato con gioia la mia vita e gliela darei di nuovo perché in essa ho trovato l’unica risposta in grado di acquietare l’inquietudine del cuore. È bello sapere di condividere questo servizio ecclesiale con vescovi di tutto il mondo. Il collegio cardinalizio rappresenta l’universalità della Chiesa riunita intorno al proprio pastore, papa Francesco. Ed è anche un segno di comunione che spero di arricchire con il mio sguardo di latinoamericano».

Ha citato la Chiesa cilena. Quest’ultima ha vissuto un periodo di forte crisi in segue allo scandalo degli abusi. Ricordiamo la riunione dei vescovi con papa Francesco nel 2018 e le loro dimissioni in blocco. Come è cambiata la situazione da allora?

«Gli abusi hanno inflitto una sofferenza terribile alle vittime in primo luogo, ma anche alla comunità, alla fede pubblica e alla fiducia. La Conferenza episcopale, le singole diocesi e le varie comunità hanno posto in essere una serie di misure perché un simile scandalo non si ripeta. E abbiamo fatto grandi passi avanti. Abbiamo procedure chiare e trasparenti».

La crisi della Chiesa ha anticipato, di poco, quella sociale esplosa nelle proteste del 2019. Come è la situazione attuale del Paese?

«Il Cile vive ancora una crisi economica, sociale e politica molto complessa. Il punto è la mancanza di un progetto di Paese che riesca a mobilitare l’intera società. Non c’è nemmeno un’etica personale che riconosca il bene comune come superiore rispetto a quello personale. Né un senso forte di comunità. La nazione è cresciuta tanto dal punto di vista economico ma ha lasciato indietro troppi cittadini. Questo ha generato una forte rabbia. Viviamo un momento di indebolimento della democrazia. Il che è drammatico: senza democrazia non c’è libertà né garanzia di difesa dei diritti umani».

Qual è il suo sogno per il Cile e come la Chiesa potrebbe contribuire a realizzarlo?

«Sogno un Paese più giusto e fraterno dove non esistano tante diseguaglianze sociali, dove le persone possano guardarsi negli occhi e dove ciascuno sia libero di esprimere i carismi, le abilità e i doni ricevuti da Dio. Un Paese capace di vivere davvero la solidarietà e di assaporare la soddisfazione del lavoro ben fatto pensando più agli altri che al nostro piccolo interesse. E, di certo, sogno un Paese cristiano e cattolico non a parole ma nei fatti. Un luogo in cui le persone riconoscano la vita spirituale fondamento delle esistenze materiali e Gesù al centro della storia. Solo così potremmo davvero costruire una società più giusta e fraterna».

Lei è cileno ma la sua famiglia è di origine palestinese. Crede ancora nella possibilità di pace in Terra Santa?

«Tutti i miei quattro nonni sono venuti in Cile dalla Palestina nel 1907. Anche se miei genitori e io siamo nati da questa parte di mondo, ci sentiamo molto legati alle nostre origini. Vengo da una famiglia cattolica, che ha provato a incarnare nella vita quotidiana i valori del Vangelo. È bello sapere che in Palestina ci sono molti sacerdoti che portano il mio cognome. Monsignor William Shomali, vescovo ausiliare di Gerusalemme, è uno di loro. La pace in Terra Santa è possibile se le parti si decidono di mettere al centro la dignità della persona e la sacralità della vita. E se tutti riconoscono il diritto degli esseri umani a vivere in Paesi liberi, senza violenza, con frontiere sicure. Mi addolora che i ripetuti appelli per la pace del Papa non vengano ascoltati proprio come le risoluzioni delle Nazioni Unite. Ai palestinesi e agli israeliani vorrei dire di non cadere nella tentazione della violenza poiché questa ne provoca solo una maggiore. È il tempo di dire “mai più” alla guerra».

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