sabato 7 settembre 2019
Ieri a Bologna la Messa presieduta dall’arcivescovo nel secondo anniversario della morte del cardinale teologo e nel 50° della scomparsa del sacerdote “amico” degli ultimi
L'arcivescovo di Bologna, Matteo Zuppi

L'arcivescovo di Bologna, Matteo Zuppi

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Padre Olinto Marella è stato una «stella luminosa nella notte della povertà e della disperazione, tenebre che oscurano la vita e alle quali non possiamo mai abituarci». Così l’arcivescovo di Bologna e prossimo cardinale, Matteo Zuppi, ha definito il sacerdote veneziano, ma bolognese di adozione, in procinto (si spera) di diventare beato, nella Messa che ha presieduto ieri nella Cattedrale di San Pietro a Bologna per il 50° anniversario della sua morte.

Una celebrazione in una chiesa gremita, anche perché l’intenzione era doppia: se infatti don Olinto Marella, noto come «padre Marella», scomparve il 6 settembre 1969, due anni fa, nello stesso giorno, è morto il cardinale Carlo Caffarra, arcivescovo di Bologna dal 2004 al 2015. E Zuppi ha ha ricordato entrambi con affetto nell’omelia. «Credo che ricordarli assieme – ha detto – sia una scelta gradita a entrambi, perché la comunione è in realtà l’aspirazione più profonda di ogni uomo e questa non solo non diminuisce l’importanza del singolo, ma anzi lo riveste di valore».

L’arcivescovo ha ricordato che «fu proprio il cardinale Caffarra nel 2005 a concludere l’iter del processo diocesano avviato dal cardinale Biffi. In quella occasione si interrogò su quale fosse il segreto dell’esistenza di padre Marella» e lo trovò «nella conoscenza della miseria umana e di come vedeva il povero con un solo sguardo. “Ha visto nel povero, Cristo e ha visto in Cristo, il povero”».

Su don Marella l’arcivescovo di Bologna ha ricordato ed elogiato il suo motto: «Il bene bisogna farlo finché si è in vita. È facile lasciare le cose che non si possono portare nell’Aldilà. La vera ricchezza da lasciare è il bene fatto». E ha sottolineato che lui «cristiano e prete, non accettava fatalisticamente la povertà che allora ed oggi condanna tante persone, ma con fermezza, determinazione, intelligenza, progettualità cercava e offriva delle risposte. Egli non faceva il possibile ma il necessario, quello che serviva a chi è nella sofferenza e non quello che serviva a lui; non delegava ad altri o si accontentava della denuncia, ma parlava poco e si coinvolgeva molto e sempre personalmente».

Di Caffarra ha detto che «è stato un maestro, come ci ha scritto il cardinale Scola», in un messaggio che verrà pubblicato integralmente domani su Bologna Sette, dorso domenicale bolognese di Avvenire, «rigoroso, chiaro, che ha amato la Chiesa proponendo una pastorale fondata sull’“avvenimento” di Gesù Cristo come “contemporaneo” alle donne e agli uomini di ogni tempo e luogo, esperienza che non riduce mai “l’evento cristiano ad esortazione morale”».

«Per padre Marella – ha osservato Zuppi – il povero non è certo un assistito, un caso, una pratica, ma è il fratello affidatoci. Cambia tutto: è una questione di amore prima che di dovere! Il povero amato diventa il mio-nostro prossimo». E ha terminato citando un’altra frase del “prete mendicante”: «Chiunque si rivolga a me è una creatura da amare. Non mi interessa il passato dei miei ragazzi, mi interessa il loro futuro. Non mi preoccupo solo di sfamarli e di vestirli, ma di cercare le loro particolari attitudini, farli studiare, dar loro un mestiere, renderli capaci di affrontare la vita, ridare loro il calore dell’amore».

Chi era quel prete mendicante accanto a poveri e bimbi

Per i bolognesi è il «prete mendicante», ma anche il «santo mendicante». Perché don Olinto Marella, a tutti noto come «padre Marella», si è fatto conoscere in città fermandosi a fare la questua, proprio come un mendicante, agli angoli delle strade del centro, con il suo celebre cappello rovesciato che come per miracolo a fine giornata era pieno di denaro. Che lui certo non teneva per sé, ma usava per i “suoi” ragazzi, bambini e adolescenti orfani, poveri, disadattati per i quali aveva costruito una “città”, cioè un insieme di case e di laboratori per l’avviamento al lavoro, e che lo chiamavano, appunto, “padre”.

Un mendicante anche santo perché egli è considerato ancor oggi «la coscienza di Bologna». E mentre si celebra il 50° della morte – anniversario ricordato ieri dall’arcivescovo Zuppi in Cattedrale – la città attende con fiducia la sua beatificazione, che potrebbe essere imminente: dopo il riconoscimento delle virtù eroiche nel 2013, poco tempo fa infatti la Commissione teologica della Santa Sede si è pronunciata positivamente sul riconoscimento del miracolo che gli viene attribuito.

E pensare che quel prete con una lunga barba, che non si vergognava di mendicare anche davanti ai luoghi di spettacolo frequentati dalla “Bologna bene” era in realtà un intellettuale, un professore che aveva insegnato per anni nei prestigiosi licei classici cittadini.

Però Marella non era nato a Bologna, ma a Pellestrina, un’isola della laguna veneziana, nel 1882 ed era giunto nel capoluogo emiliano nel 1924 per le tormentate vicende della sua vita sacerdotale: nel 1909 infatti il vescovo di Chioggia lo aveva sospeso a divinis perché sospettato di modernismo.

A Bologna nel 1925 il cardinale arcivescovo Nasalli Rocca gli tolse la sospensione e lo accolse nel clero diocesano. Così don Marella si stabilì nella città e vi rimase fino alla morte, avvenuta 50 anni fa, il 6 settembre 1969. E qui cominciò il suo apostolato fra i più poveri, nella periferia della città e soprattutto nelle case popolari.

Trasformò in piccole cappelle alcune cantine dei palazzoni e ospitò nel suo appartamento dieci bambini orfani. Ben presto divenne per tutti «padre Marella», per la sua paternità esercitata sul campo. Nel 1948 in un vecchio magazzino crea la prima rudimentale “Città dei ragazzi”. Oggi la sua opera è proseguita dalla Fraternità cristiana Opera di padre Marella Città dei ragazzi, presieduta dal francescano padre Gabriele Digani, che si muove a 360 gradi nel campo del sociale e sostiene oltre 350 persone in difficoltà.




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