martedì 17 agosto 2021
Questo atteggiamento permette «quel camminare insieme cui come Chiesa siamo chiamati». Ma lo si deve fare non solo verso se stessi, ma anche verso gli altri «che la vita ci fa incontrare»
Eugenio Borgna

Eugenio Borgna - .

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Prima di tutto, Agostino: noli foras ire, in te ipsum redi, in interiore homine habitat veritas. (Non uscire da te, rientra in te stesso, nell’intimo dell’uomo abita la verità). Chiamato a intervenire al 79° Corso di studi cristiani ad Assisi sul tema «Sinodo, insieme per camminare insieme», il professor Eugenio Borgna, psichiatra e docente emerito, non poteva non partire dal monito agostiniano, che dall’adolescenza ai 90 anni di oggi gli è caro. Di «ascolto», Borgna si potrebbe dire un maratoneta, dopo 40 anni nell’ospedale psichiatrico femminile di Novara. Uno scorrere infinito di parole, e disperati silenzi, e sguardi, frammenti vivi di dolore. Quanto ha «ascoltato », Eugenio Borgna.

Professore, ancora è possibile annunciare Agostino, in un tempo tanto distratto?
È possibile, e necessario. Come capire qualcosa degli altri, di quel camminare insieme, cui come Chiesa siamo chiamati, se non siamo in costante ascolto di noi stessi, e di coloro che la vita ci fa incontrare, e particolarmente dei più fragili, e, infine di Dio?

E come si fa a imparare ad ascoltare?
Porsi in ascolto è liberarsi dai propri pensieri, sapere mettere sé stessi fra parentesi. Passare dal «sentire» all’«ascoltare», che è altro e molto di più, è un gettare ponti.

Viene in mente Etty Hillesum, la giovane ebrea morta ad Auschwitz, che scriveva nel suo Diario: «Io sto sempre molto tesa e molto attenta… ».
Questo è proprio l’ascolto, una tensione all’altro. Quell’attenzione al prossimo che, diceva Simone Weil, è già preghiera.

Non sarebbe rivoluzionario, nel labirinto del web, nel ronzio dei social o fra le battute dei dee jay alla radio, sentir risuonare «Noli foras ire, in te ipsum redi...».
Forse. Ma a volte mi domando quanto davvero sia totalizzante il dominio di media e web. Perché mi accade di essere invitato nelle scuole, e le domande dei ragazzi spesso mi sbalordiscono, tanto sono acute e profonde. Da un liceo di Novara al Parini di Milano, mi meraviglia l’affiorare di domande cui molti adulti faticherebbero a rispondere. È come se intravedessi il crescere di una nuova generazione che cerca, e non trova, perché gli adulti tacciono. Una umanità silenziosa, adolescente, senza maestri.

Lei ad Assisi parla di ascolto del prossimo. Penso alla miseria di migliaia di migranti che sbarcano in Italia, o annegano nel tentativo di arrivarci. Eppure questo sembra lasciarci sempre più indifferenti, quando non ostili. L’ascolto autentico non richiede anche immedesimazione?
Certamente. Ed è strano, c’è ormai in noi quasi un pregiudizio fatale: al massimo riconosciamo la povertà materiale di questa gente, la loro fame, ma è come se non sapessimo che ciascun profugo dalla Siria o dall’Afghanistan è un uomo con la sua interiorità, uno che ha perduto la casa, magari abbandonato i figli, o un orfano straziato.

Il Covid quasi due anni fa ci è arrivato addosso come una bomba: la strabiliante scoperta che anche fra noi, e anche ancora giovani, era possibile morire in poche ore. Le bare di Bergamo sui camion dell’Esercito sono state uno schiaffo indimenticabile per gli italiani. C’è stata in noi una sorta di conversione, e quanto duratura?
Nelle prime settimane quelle incredibili, strazianti bare di Bergamo, e ciò che accadeva negli ospedali, hanno per qualche tempo, credo, creato fra noi una «comunità di destino». Benché magari impauriti nell’incrociare un altro per la strada, ci siamo, per qualche tempo, sentiti tutti sulla stessa barca. Alla terza, alla quarta ondata, certo, c’è stanchezza. Eppure quel primo sentire comune, quel pure breve «essere insieme» che abbiamo provato, testimonia che l’umanità in fondo a noi non è pietrificata.

Lei ha scritto nel suo ultimo libro, «In dialogo con la solitudine» (Einaudi), che non c’è ascolto senza solitudine. Cosa vuole dire?
Parlavo naturalmente di solitudine non nel senso di isolamento, di chiusura all’altro, ma di quella solitudine desiderata e scelta che diventa capacità di mettere da parte noi stessi, e lasciare spazio al Mistero. È questa «bella solitudine» che ci cambia lo sguardo: e scioglie finalmente il nostro egoismo in generosità e ascolto dell’altro.

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