Benotti: il mio nuovo inizio in carrozzina
«Quella volta non c’era un’attenzione particolare per i disabili. Ora molto è cambiato. Ma non l’invito: ogni passo può essere una ripresa, E le domande di senso rimangono le stesse di allora»

Avevo quasi diciott’anni nell’agosto del 2000. E da un paio mi muovevo in carrozzina. Non era solo una condizione nuova: era uno sconvolgimento. La mia vita aveva cambiato traiettoria, e io cercavo di capire come rimanerle dentro. E proprio in quel tempo fragile, di adattamenti silenziosi e domande senza voce, arrivò la Giornata mondiale della gioventù. Era l’anno del Grande Giubileo, e quel raduno immenso di giovani a Roma con il suo culmine a Tor Vergata - era una delle celebrazioni più attese. Fu il mio primo grande evento ecclesiale vissuto in quella nuova stagione della vita. In un’epoca in cui si iniziava appena a parlare di accessibilità, figuriamoci di inclusione. A Tor Vergata non c’erano bagni accessibili, né percorsi facilitati, né zone d’ombra. C’eravamo noi, giovani da ogni parte del mondo, e una distesa di terra battuta su cui stendere un sacco a pelo. Ricordo la polvere, il caldo, il peso delle ruote su un suolo che si opponeva. E al tempo stesso la leggerezza di un momento condiviso. Quella notte dormii per terra. E non mi sembrò un problema. Era la normalità, allora. C’era una bellezza nell’essere lì, nel condividere ogni fatica, ogni scomodità. Quando c’era necessità di superare qualche barriera, mani sconosciute aiutavano. Nessuno chiedeva se ci fosse un modo migliore: lo si faceva senza pensarci. E io mi sentivo dentro. Non al margine, ma al centro di qualcosa. E poi ci fu l’arrivo di Giovanni Paolo II. Il Papa della mia giovinezza, già provato dal dolore, ma luminoso nello sguardo e nella voce. Quando disse «non abbiate paura di affidarvi a Lui», mi rendo conto soltanto oggi, un seme si era depositato. Erano parole per tutti, certo. Ma le sentii rivolte a quel ragazzo che cercava un nuovo inizio nel corpo e nella fede. Stasera tornerò a Tor Vergata. Non più da pellegrino adolescente, ma per raccontare - da giornalista - questa nuova marea di giovani che, venticinque anni dopo, si mette in cammino verso Roma, verso Pietro, verso l’incontro. È un altro tempo, un’altra Chiesa, un’altra società. Ma le domande sono ancora lì: chi sono io? Per chi vivo? Dove sto andando? Ci penso da giorni: torno o non torno a dormire sul prato? Lo avrei fatto anche oggi, lo confesso. Ma mia moglie e mio figlio mi hanno fatto notare che forse, ormai, non ho più l’età. Abbiamo trattato in famiglia: il cuore dice sì, la schiena tentenna. Ma a prescindere da dove poserò la testa stanotte, so che quel luogo ha ancora una parola da dirmi. Una cosa, però, è profondamente cambiata. Oggi l’organizzazione è molto più attenta alle persone con disabilità. Ci sono aree accessibili, percorsi dedicati, volontari formati. Non è un dettaglio. È un segno che la Chiesa ha camminato, ha ascoltato, ha imparato. C’è ancora molto da fare, certo. Ma l’idea che tutti possano partecipare davvero, senza chiedere il permesso, è già un’altra storia. Torno a Tor Vergata per raccontare un Giubileo. Ma in fondo, torno per dire grazie. Perché quella notte del 2000 mi ha insegnato che si può essere gioiosi anche nella polvere, che si può cercare Dio su un prato, tra mille sconosciuti che per una sera diventano fratelli. E che la fede, se è viva, ti prende per mano dove sei. Anche se sei seduto, anche se non puoi correre. Anche se hai quasi diciott’anni e una vita da ricominciare. Forse è proprio per questo che il Giubileo è sempre dei giovani: perché ti ricorda che ogni passo, anche il più incerto, può essere l’inizio.
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