sabato 22 gennaio 2011
Oggi il quarto anniversario dalla morte del religioso. A Marsiglia clochard e professionisti insieme per un documentario dedicato all’opera del sacerdote che fu monaco, partigiano, deputato, scegliendo sempre di spendersi per i poveri.
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A quattro anni dalla partenza per le sue «grandi vacanze» (22 gennaio 2007), il ricordo dell’Abbé Pierre è ancora molto vivo. In Italia e nel mondo. Certo, la presenza più solida e più viva sono le sue 340 comunità e gruppi sparsi in Africa, Americhe, Asia ed Europa (14 in Italia) che cercano di vivere e testimoniare il messaggio dell’Abbé Pierre, oltre al limite della «logica», «perché non bisogna essere perfetti per cominciare qualcosa di buono». Da un capo all’altro della terra, Emmaus era per lui la prova che l’Amore portato a Dio passa attraverso l’amore agli Uomini, indissociabilmente. Senza «se» e senza «ma».Il mondo della comunicazione, tanto caro all’Abbé Pierre e mai trascurato quand’era in vita, non dimentica questo «gigante» dell’immagine. Infatti, è stato presentato a fine dicembre 2010 e uscirà nelle sale cinematografiche in Francia nel marzo prossimo, un film girato a Marsiglia (ove da tempo ci sono due Comunità Emmaus). Il documentario è scritto ed interpretato da un gruppo di senzatetto: clochards trasformati in registi, attori e sceneggiatori. Una vera fiction di denuncia realizzata con la Fondazione Abbé Pierre e l’associazione Time Code.Quella raccontata nel documentario è la città, la cui popolazione è divisa in due classi sociali antagoniste, i «Nantis» e i «Lambdas», cioè i ricchi e i «qualunque», i reietti della società. Quei «pidocchiosi» che, promette il sindaco xenofobo Fox in un discorso alla tv, dovranno scomparire entro otto giorni dalle strade della città. Perché, ha aggiunge l’amministratore, i cittadini manifestano «la loro paura e il loro orrore davanti alla feccia che si aggira attorno ai cassonetti e davanti alle scuole dei loro figli».Insieme a sceneggiatori professionisti, i «sans-abri» si sono lanciati nell’avventura: 52 minuti di un film caustico ma mai moralista, girato con pochissimi mezzi grazie alla mobilitazione dei tecnici di Marsiglia che hanno rinunciato al compenso e dedicato l’opera a Jehemi Boumediene, Jimmy, morto qualche mese fa durante la stesura della sceneggiatura, vittima di un’embolia polmonare dopo 15 anni di vita in strada. Un film, insomma, che conferma come l’azione dell’Abbé Pierre, le sue provocazioni e le sue collere non siano state vane ma abbiano lasciato un segno.Un mosaico vivo cui andrà ad aggiungersi, quando sarà terminato, anche «il luogo della memoria», a Esteville, un paesino sperduto nelle vaste verdi pianure della Normandia, a pochi passi dal piccolo cimitero ove sono state riposte le spoglie mortali dell’Abbé Pierre, come da lui richiesto, tra Georges, assassino e suicida maldestro, il primo compagno di Emmaus e Lucie Coutaz, miracolata di Lourdes, che il cardinale Henri-Marie De Lubac gli consigliò come segretaria, già dai tempi della Resistenza, durante la guerra.In questi quattro anni, una folla senza fine è passata da Esteville, sostando sulla tomba dell’Abbé, fermandosi anche a visitare la «Halte d’Emmaus», una vecchia casa sistemata da anni per accogliere gli anziani di Emmaus e dove, appena ne aveva il tempo, l’Abbé Pierre amava rimanere per periodi di riposo, di preghiera e lettura, un po’ più tranquillamente di quanto non avvenisse nel «condominio» di corso della Libertà 2 a Charenton alla periferia di Parigi.Per arricchire questo luogo della memoria è stato chiesto al cardinale Roger Etchegaray, grande amico dell’Abbé Pierre già dai tempi del Concilio, quando il cardinale era vescovo a Marsiglia, di scriverci qualche «pensiero». «Quando si pensa all’Abbé Pierre, irresistibilmente si ritorna ad Assisi – scrive il porporato – è là che io oso simbolicamente localizzare il villaggio Emmaus. Lassù, alle Carceri, dove nell’agosto 1998, l’Abbé Pierre mi aveva invitato per i suoi 60 anni di sacerdozio, insieme a un altro suo grande amico, Isidore De Souza, arcivescovo di Cotonou in Benin. Quel giorno – racconta ancora Etchegaray –, nel ricordare la sua ordinazione sacerdotale, a Parigi, nella cappella dei Gesuiti, ci riferì di un consiglio datogli dal padre De Lubac, suo confessore: "Domani quando sarai steso sul pavimento della Cappella, fai una sola preghiera allo Spirito Santo: chiedigli che ti conceda la virtù dell’anticlericalismo dei santi!"».«L’Abbé Pierre – continua Etchegaray – aveva un’anima immersa in un unico amore a "double face": Dio e gli uomini. L’amore del prossimo non è una semplice ripetizione dell’amore di Dio, è amare l’uomo semplicemente, tutto intero, ritrovando nell’amore di Dio il suo fondamento ed il suo modello. È ciò che spiega le rivolte dell’Abbé Pierre, non potendo sopportare le caricature che sfigurano la carità: carità, semplice riparazione senza preoccuparci di risalire alle cause; carità, brevetto di buona coscienza per coloro che si rendono complici delle ingiustizie sociali; carità che trasforma gli uni in benefattori e gli altri in assistiti. La carità esige la giustizia, ma va oltre – nota ancora il cardinale –: il lebbroso ha diritto di essere curato, ma non ha diritto al bacio di Francesco d’Assisi, eppure ne ha così bisogno. Se l’Abbé Pierre ha retto nella sua lotta per la carità, è perché, a tutti i costi, si è agganciato alle parole di san Paolo, convinto che l’Amore non solo è più grande della Fede e della Speranza, ma è il solo che sopravviverà».Il paradosso della nostra epoca, sottolinea Etchegaray, «è che ci si avvicina al dramma dei poveri con una mentalità da ricchi, mentre la Chiesa, su esempio di Maria, si avvicina con un’anima di povero. Da qui, l’enorme equivoco tra la povertà economica e la povertà evangelica, che rende insignificante la prima beatitudine. Occorre saper conciliare una povertà da combattere con una povertà da abbracciare. È difficile abbracciare "Signora Povertà" in una società di abbondanza».
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