Le guardie carcerarie: noi, testimoni di un’umanità bisognosa di speranza
Per il Giubileo dei detenuti, parla della loro situazione Giovanni Battista de Blasis, segretario generale aggiunto del Sappe, sindacato degli agenti penitenziari

«Siamo ben consapevoli della vicinanza della Chiesa al mondo delle carceri e, per certi versi, anche alla Polizia Penitenziaria. Non è un caso che, in quasi tutti gli istituti, il cappellano sia un costante e prezioso punto di riferimento anche per noi poliziotti penitenziari...». Classe 1958, da una vita nella Polizia penitenziaria, Giovanni Battista de Blasis è il segretario generale aggiunto del Sappe, il sindacato più rappresentativo degli agenti penitenziari, col 27% degli iscritti su un totale di 37mila agenti e funzionari in servizio. Una componente importante di quel complesso mondo delimitato da sbarre e alti muri di recinzione. Un perimetro all’interno del quale le modalità di espiazione della pena, secondo la Costituzione, dovrebbero tendere alla rieducazione del condannato. Ma quell’obiettivo, additato dai padri costituenti nell’articolo 27 della Carta, nella pratica troppo spesso è reso arduo o perfino impossibile dalle effettive condizioni di detenzione, con spazi ristretti e difficoltà di ogni genere.
In alcune carceri, ha ribadito nei giorni scorsi il capo dello Stato Sergio Mattarella, «le condizioni sono del tutto inaccettabili». Voi agenti penitenziari, segretario de Blasis, come state vivendo questa fase complessa e problematica negli istituti?
«Abbiamo ascoltato il nuovo appello del presidente della Repubblica, che ringraziamo sempre per la sua attenzione al nostro mondo. E non abbiamo mai dimenticato quelli, altrettanto accorati, lanciati nel corso degli anni da papa Woytila, papa Ratzinger, papa Francesco. E confidiamo, adesso, nelle preghiere di papa Leone XIV. Questo è, dunque, il momento giusto per polarizzare l’attenzione di tutti sulla triste situazione in cui versano i penitenziari italiani».
Le cifre del sovraffollamento sono ormai a livelli preoccupanti. Lei cosa ne pensa?
«Purtroppo, la situazione generale è, come ho detto, triste. Bastano alcuni numeri a sintetizzarla: 63mila detenuti ristretti, nel vero senso della parola, in poco più di 45mila posti effettivi. E poi 37mila poliziotti penitenziari costretti a fare il lavoro dei 42mila che sarebbero previsti in condizioni normali. E, come se questo già non bastasse, bisogna fare i conti con la profonda crisi della sanità penitenziaria, che non è in grado di garantire ai detenuti il diritto costituzionale alla salute. Per non parlare, poi, della scellerata chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari, i cosiddetti Opg, non adeguatamente sostituita dalle residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, le Rems. Una decisione che ha riversato nelle carceri più di mille persone con disturbi psichiatrici o affette da malattie mentali. Tutto questo ha ridotto le carceri nello stato che tutti conosciamo, con l’aggravante in alcuni casi del degrado e della fatiscenza delle strutture».
Condizioni di sofferenza che alimentano il malessere generale che si respira dietro le sbarre. Quest’anno sono purtroppo già 72 i reclusi che si sono tolti la vita in un momento di disperazione...
«Già. E l’anno scorso abbiamo assistito impotenti al suicidio di oltre 90 detenuti, un numero mai raggiunto nella storia. E fa rabbrividire anche il numero dei suicidi di poliziotti penitenziari: più di cento negli ultimi vent’anni. Un dato di gran lunga superiore alla media della società civile e maggiore anche di quelli delle altre forze dell’ordine».
Una situazione, par di capire, che non vi lascia affatto tranquilli.
«Le dico questo: in un contesto del genere, abbiamo davvero un disperato bisogno della vicinanza della Chiesa. E il Giubileo, in particolare, è un’occasione straordinaria per ottenere l’attenzione della gente comune sul carcere, laddove vivono essere umani che stanno pagando un debito con la società e che non possono e non devono essere sottoposti a pene aggiuntive rispetto alla condanna subita. Senza dimenticare il fatto che, insieme a loro, ci sono i poliziotti penitenziari, che convivono nelle stesse mura e condividono le stesse sofferenze, senza però aver commesso alcun reato».
Quali riflessioni le suggerisce l’evento giubilare, rispetto all’universo carcerario?
«In una lettera di san Paolo agli Ebrei è scritto: “Ricordatevi dei carcerati, come se foste loro compagni di carcere”. Ecco, io ritengo che per la pastorale penitenziaria questo versetto sia importante. Lo è perché non parla solo di fare visita a chi è in carcere, ma di condividere interiormente la condizione dei detenuti. E, perciò, si chiede alla comunità cristiana non solo di non dimenticare il carcere, ma di “ricordarsene”, di tenerlo fisso nella memoria, nella preghiera e in tutto ciò che si può fare per aiutare chi vi è recluso e chi ci lavora».
Il Guardasigilli Carlo Nordio ha in programma interventi per alleggerire il sovraffollamento: dal ricorso alle pene alternative all’assegnazione dei detenuti dipendenti da droghe alle comunità di recupero. Basteranno?
«Attendiamo con fiducia, vedremo. In generale, abbiamo bisogno di aiuto per le carceri, per i carcerati e anche per i poliziotti penitenziari e per tutte le altre categorie di operatori che ci lavorano. Il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri, diceva qualcuno. Un ammonimento che non dovremmo mai dimenticare».
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