Il Papa a Gerusalemme? «Al lavoro perché sia città santa di tutti»
di Irene Funghi
Costruire nuove vie per «ascoltare il dolore e avviare processi di riconciliazione»: così fra Matteo Brena, presidente del comitato organizzatore del quinto convegno internazionale dei commissari di Terra Santa, spiega ad Avvenire come sta cambiando il loro ruolo

«Il legame delle comunità cristiane di Terra Santa con la Chiesa universale non è qualcosa di opzionale. Fa parte della vocazione stessa dell’essere cristiani in quel luogo». Ne parla ad Avvenire fra Matteo Brena, frate minore e presidente del comitato organizzatore del quinto congresso internazionale dei commissari di Terra Santa, tenutosi recentemente a Gerusalemme. È lì che sono arrivati da tutto il mondo i 75 frati che svolgono il ruolo di commissari per incontrare le pietre vive del luogo e riflettere insieme su come ascoltare, sostenere e annunciare ciò che accade nella terra di Gesù da “Ambasciatori di pace”, come recita il titolo scelto per il raduno.
Fra Matteo Brena, chi sono e cosa fanno esattamente i commissari di Terra Santa?
Nascono nel 1.400 con il compito di collegare la missione della custodia con i territori occidentali, dove le case regnanti e le signorie potevano dare un supporto economico e politico, per permettere ai cristiani di rimanere in quei luoghi e, quindi, ai luoghi di rimanere accessibili. Dall’inizio del ’900, con la partenza dei grandi pellegrinaggi, diventano anche guide di gruppi e, dagli ultimi 10 anni, promuovono progetti di solidarietà e sviluppo per le opere francescane del Medio Oriente, come scuole e ospedali, accessibili a cristiani e non cristiani. In questo momento i commissari sono 75 e provengono da diverse province del mondo, ma si stanno sviluppano nuovi commissariati dove il cristianesimo sta fiorendo di più, come nell’Estremo Oriente. Da Indonesia, India e Corea, infatti, i pellegrinaggi non si sono mai fermati, nemmeno durante la guerra, trovando nuove forme per arrivare in Terra Santa anche durante il blocco aereo.
Come commissari, vi siete messi in ascolto dei pastori delle comunità, dei guardiani dei luoghi santi e dei laici che ogni giorno vivono in quei territori.
L’ascolto, quando ci si trova in una realtà complessa, è imprescindibile. I pastori di Terra Santa, Libano e Siria ci hanno raccontato cosa significhi guidare le comunità in tempi di crisi e hanno espresso la loro preoccupazione davanti all’emigrazione di tanti cristiani, ribadendo, però, l’importanza della vocazione dei credenti del Medio Oriente, che custodiscono le loro terre e le rendono accessibili ai fratelli. Tra i tanti, si è collegato con noi padre Gabriel Romanelli, pastore del piccolo gregge di Gaza, il cui 6% è morto a causa delle bombe, dei cecchini o della mancanza di cure appropriate. I frati della custodia, ci hanno restituito, invece, cosa significhi rimanere fedeli alla vocazione di tenere aperti i santuari anche quando nessuno viene a visitarli. In loro, nonostante tutto, c’è una forte volontà di guardare al futuro, curando la presenza dei francescani negli ospedali e, in particolare, nelle scuole, che possono dare ai giovani le competenze per affrontare le sfide del contesto in cui vivono.
Siete stati di persona anche a Betlemme.
Lì i giovani della Gioventù francescana ci hanno dato un mandato forte: chiedere la giustizia che loro adesso non hanno. Tutti soffrono l’impossibilità di muoversi per lavorare, curarsi o rivedere i parenti che vivono aldilà del muro al confine con Israele. Abbiamo visto che sono stati aggiunti nuovi varchi, cancelli e check-point e a Betlemme vige una specie di coprifuoco. In vista di questo Natale, però, sono stati concessi 12mila permessi della durata di un mese: quindi molte famiglie, dopo due anni, si potranno finalmente riunire per le festività. Visitare questi luoghi, quindi, è importante non solo per offrire un sollievo economico, ma anche per portare conforto a chi non ha, come noi, la possibilità di spostarsi liberamente.
I commissari si sono chiesti poi come sostenere e annunciare ciò che accade in Terra Santa.
Ci siamo proposti un coordinamento sempre più forte per la colletta del Venerdì Santo, che sostiene in varie parti del mondo le opere della Custodia. Per quanto riguarda l’annuncio, invece, è sempre più importante permettere l’incontro con le comunità cristiane e avviare processi di riconciliazione.
Come?
Riconoscendo il bisogno di tutte le parti di essere ascoltate: stiamo pensando a nuovi modelli di pellegrinaggio, che prevedano l’ascolto delle narrazioni e del dolore dell’altro. Ci sono ad esempio giovani musulmani che al “Mosaic center” di Gerico restaurano mosaici bizantini, parte della cultura cristiana, ma di un patrimonio storico che appartiene anche a loro, e voci ebraiche che potrebbero essere ascoltate tra gli ebrei di confessione cristiana e la comunità ebraica italiana.
Come avete accolto il sogno di Leone XIV di ritrovarsi con i capi delle Chiese cristiane a Gerusalemme per il Giubileo del 2033?
È un bel proposito: bisogna lavorare perché Gerusalemme rimanga accessibile a tutti. Oggi la tentazione è di farla appartenere ad una parte sola. Il tema sollevato dal Papa, invece, è quello del ritrovarsi insieme. Con identità diverse, ma insieme. E riscoprire un punto di partenza e di arrivo comune. Dobbiamo rimanere al lavoro, quindi, perché Gerusalemme continui ad essere città santa per tanti.
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