sabato 30 marzo 2019
Dalla medaglia al valore nella campagna di Russia, alla carriera nell’Esercito, alla consacrazione. A Orvieto chiusa la fase diocesana della causa di beatificazione
Gianfanco Chiti. Prima generale dei Granatieri poi padre cappuccino

Gianfanco Chiti. Prima generale dei Granatieri poi padre cappuccino

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Una vita da film quella di padre Gianfranco Maria Chiti (1921-2004) o da romanzo: avrebbe ben figurato nel Cavallo Rosso di Eugenio Corti per esempio. Ufficiale nel Regio esercito, medaglia al valor militare a 21 anni per la campagna di Russia, dopo aver aderito alla Rsi salvò partigiani ed ebrei, come i torinesi Giulio Segre e suo padre, da una fine che pareva scritta. Dopo la guerra divenne generale di brigata dei Granatieri di Sardegna e rivestì incarichi di primo piano nelle scuole militari e in Alti comandi fra cui lo Stato maggiore dell’esercito.

Quindi, congedatosi nel 1978, si fece cappuccino. Restaurò il convento di Orvieto, semi abbandonato, rendendolo un’oasi di spiritualità e di conforto per tanti. Una vita, la sua, che dalla prima giovinezza fino alla vecchiaia ha lasciato dietro di sé un profumo di virtù, anzi di vera e propria santità, testimoniato da innumerevoli voci. Per questo il 13 aprile 2015 il vescovo di Orvieto-Todi Benedetto Tuzia ha aperto l’inchiesta diocesana per la causa di beatificazione, che questo sabato 30 marzo si è solennemente chiusa nel Duomo di Orvieto con la Messa celebrata dallo stesso Tuzia.

Chiti nacque a Gignese (Verbania) nel 1921, trascorrendo l’infanzia in Inghilterra – suo padre fu primo violino della filarmonica di Londra – poi a Pesaro. A 15 anni si iscrisse alla scuola militare di Milano, attratto da quel mondo e segnato da una fede ardente. Dopo lo scoppio della guerra fu in Slovenia e Croazia, dove fu decorato con la croce di guerra al valor militare. Nell’aprile 1942 partì per la Russia, col 32° battaglione controcarro Granatieri di Sardegna diretto sul fiume Don. Aveva sotto il proprio comando oltre 200 uomini. Riportò ferite da schegge sulla schiena, che lo tormentarono per tutta la vita. Ricoverato per congelamento, i medici decisero di amputargli un piede, ma Chiti si rifiutò per non lasciare i suoi soldati, recuperando poi l’uso dell’arto.

Ricevuti in consegna dai tedeschi una ventina di prigionieri russi – fra cui vecchi, donne e bambini – perché li passasse per le armi, li spinse alla fuga. La sua abnegazione e generosità colpirono profondamente i suoi commilitoni. «Chiunque si recava al suo caposaldo si ritrovava inspiegabilmente in tasca qualche sigaretta, due biscotti, un pezzo di carne o un tocco di marmellata» raccontò uno di loro.

Nella tragica ritirata salvò dalla morte diversi soldati che, senza forze, volevano fermarsi sulla strada e attendere la fine. «Quando vedevo i corpi dei miei giovani compagni riversi senza vita – scrisse Chiti in una memoria – mi veniva l’istinto di inginocchiarmi e baciarli, perché morivano per colpe di altri, perché erano stati strappati alle loro famiglie, portati in territorio lontano a morire. Vedevo in loro l’immagine del Redentore, perché anche la guerra è effetto dei peccati nel mondo».

Dopo il 25 aprile del ’45 come reduce della Repubblica Sociale fu internato in una serie di campi allestiti dagli Alleati. Furono mesi di desolazione e dolore in cui si aggrappò al cappellano militare padre Edgardo Fei: toccante la corrispondenza fra i due che ci è rimasta (vedi box a fianco). Epurato dall’esercito, Chiti si trasferì a Campi Salentina (Lecce), dove insegnò matematica in una scuola dei padri Scolopi, fino alla riabilitazione che gli permise di rientrare nell’amata vita militare.

Disse in un’intervista rilasciata nel 2000: «Quando al mattino ringrazio il Signore per il dono della vita, lo ringrazio anche per avermi fatto fare il soldato, il cui compito non è, come pensa la gente, quello di sparare: il suo compito è soprattutto educativo… è quello di difendere la pace, il diritto, la giustizia». Morì a 83 anni e la salma, tumulata a Pesaro nella cappella di famiglia, fu vestita con gli abiti militari sotto il saio cappuccino.

La lettera dalla prigionia

La mia più grande sofferenza è la bestemmia che qui domina ovunque e in bocca di tutti. Unico mezzo per cercare di limitarla è la preghiera, che se cerchi di richiamare colui che bestemmia, questo per ripicca te ne intona una vera litania. Preghiera ed esempio! Infatti nella mia camerata quando ci sono io nessuno bestemmia più. E quando qualcuno non s’accorge che ci sono, e bestemmia e poi mi vede, viene da me e dice: «Scusate, tenente». Questo mi fa quasi perdere la calma ed è con asprezza che dico: «Non è a me che devi chiedere scusa ma a Dio!» (17 novembre 1945)

Due libri

Sono due i libri che le edizioni Ares hanno dedicato alla figura di Gianfranco Chiti negli ultimi mesi. “Il generale arruolato da Dio” (pagine 352; euro 16,90) è la biografia scritta da Vincenzo Ruggero Manca, generale e poi senatore che fu allievo di Chiti nel suo periodo di insegnamento nel Salento (prefazione di Gerardo Bianco). Quindi “Gianfranco Chiti. Lettera dalla prigionia 1945” (pagine 248; euro 16), la corrispondenza curata dallo storico cappuccino padre Rinaldo Cordovani, con prefazione dell’arcivescovo Santo Marcianò, ordinario militare per l’Italia.

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