venerdì 22 settembre 2017
A colloquio con il vescovo di Cremona originario delle Marche che guida la diocesi lombarda dal 2016. «Fra preti e sposi un’alleanza strategica. I giovani vanno ascoltati: ecco il nostro Sinodo»
Il vescovo di Cremona, Antonio Napolioni, con alcuni ragazzi

Il vescovo di Cremona, Antonio Napolioni, con alcuni ragazzi

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Dalle vetrine del negozio di generi alimentari che si trova appena dietro la Cattedrale di Cremona qualcuno vede passare a piedi, in un angolo della piazza, monsignor Antonio Napolioni. «C’è il vescovo – indica la titolare –.Vorrei invitarlo a benedire il negozio... Ogni volta che lo vedo è sempre così sorridente». I clienti concordano. «Tanta gente rimane sorpresa perché sorrido – racconta lui –. Ma il primo pulpito è proprio il sorriso. Se come discepoli del Risorto siamo uomini della gioia, la gioia va mostrata più che spiegata o descritta ». Ride il vescovo arrivato dalle Marche che compirà 60 anni l’11 dicembre e che dal gennaio 2016 guida una Chiesa di 366mila anime divisa fra le province di Cremona, Bergamo, Mantova e Milano. «Papa Francesco mi considera il “vescovo del torrone”. E ogni volta che ci incrociamo mi chiede: “Mi hai portato il torrone?”». Possibile? «Certo. E c’è un motivo. Quando Bergoglio studiava in Germania, c’era una ragazza di qui che gli regalava il torrone e aveva continuato a inviarglielo in Argentina. Perciò, per Francesco, Cremona è la patria dei torroni», scherza il presule.


Il passo di Napolioni è veloce. Del resto è un buon camminatore. Ha alle spalle anni nei gruppi Agesci. «È stato il mondo scout a farmi riscoprire la bellezza dell’essere Chiesa – confida il pastore con il fazzolettone –. Vengo da una famiglia che aveva due anime: una cattolica e l’altra anticlericale, addirittura massonica. Sono cresciuto in parrocchia ma, come accade a tanti giovani, ho vissuto un periodo di distacco dai sacramenti. Quando mi sono imbattuto nello scautismo, ho trovato laici e sacerdoti entusiasti della loro scelta di servizio fondata sul Vangelo. E, nel momento in cui mi sono reso conto che la cosa più importante che potessi fare assieme ai ragazzi era leggere la Parola di Dio e pregare con loro, sono entrato in Seminario. Avevo 21 anni e frequentavo giurisprudenza. Forse, senza questi incontri, sarei stato un avvocato come mio nonno e mio padre...». Anche nel suo stemma episcopale c’è un richiamo a Robert Baden-Powell, il “padre” degli scout. «Sono stati i bambini a convertimi – rivela Napolioni –. Attraverso l’impegno accanto ai ragazzi e quel protagonismo laicale vissuto nell’Agesci, ho capito che cosa sia la gioia della fede. E tutto ciò l’ho evidenziato nel mio motto: “Servite il Signore nella gioia”. In fondo la ricerca della gioia trova la sua pienezza nel servizio e nell’incontro con il Signore che si mette a servizio dell’uomo».


Oltre quattrocento chilometri separano Cremona dall’arcidiocesi in cui il presule è nato ed è diventato sacerdote: quella di Camerino-San Severino Marche. «Mai avrei immaginato di approdare in Val Padana. Vengo da una terra di montagna. E la pianura mi era totalmente estranea. Adesso ne sto assaporando il fascino che genera anche una sua psicologia. La pianura ha un orizzonte aperto, senza barriere, che facilita ed espone all’incursione dell’altro. Per questo nascono qui le cascine che sono al tempo stesso presidi di difesa ma anche laboratori di solidarietà che hanno portato a un pullulare di opere benefiche e associazioni». Il vescovo torna alla sua nomina voluta da Francesco. E la racconta fra battute e aneddoti. «Andavo a dire le Lodi nella chiesa parrocchiale quando arriva un collaboratore che mi dice: “Don Antonio, c’è da chiudere il bagno. Un macello… Tutto sporco. Hanno fatto un dispetto». E io: “Dico le Lodi e arrivo”. Poi compare un prete anziano: “L’arcivescovo ti cerca subito”. Io ribatto: “Dico le Lodi e lo contatto”. Che cosa avrò fatto dopo le Lodi? Mi sono messo a pulire il bagno. Mentre stavo lì, mi chiama l’arcivescovo Brugnaro: “Vieni di corsa”. Gli rispondo: “Adesso ho un’emergenza”. E lui: “Quale?”. E io: “Un bagno da sistemare...”. Lo sento replicare: “Macché bagno, ti vuole il nunzio apostolico”».


Napolioni era parroco a San Severino quando il Papa lo sceglie per guidare la Chiesa cremonese. «Cinque anni preziosissimi che mi hanno insegnato una capacità di dialogo che forse non avrei avuto». Sarà per questo che come pastore insiste sul ruolo della parrocchia. Da «ripensare», ha scritto. «La tradizione del Lombardo Veneto – osserva – vuole che le parrocchie siano avamposti sociali. Infatti avevano la scuola o il grande oratorio. Qualcosa di tutto questo resiste, mentre altro richiede un aggiornamento. Altrimenti corriamo il rischio di piangere sulle sicurezze che non abbiamo più e di non aprirci al rinnovamento pastorale che nel Centro Italia, avendo vissuto prima la crisi delle vocazioni, è già stato avviato. Nella diocesi di Cremona abbiamo 222 parrocchie: un numero così elevato non tiene conto della vita reale della gente. Le strutture non possono essere il criterio primo. Non si tratta di attuare una spending reviewo un ritocco dei confini. Ripensare la parrocchia significa guardare dove le persone stanno e quindi puntare sulla collaborazione, sulla valorizzazione del laicato e dei diversi ministeri, sulle unità pastorali». Il vescovo va con la mente al dramma del sisma che ha colpito le sue terre d’origine. «L’esperienza del terremoto testimonia drammaticamente che, dove non si riusciva a fare unità, adesso è possibile collaborare perché le pietre vive si accorgono che hanno bisogno le une delle altre. Così la parrocchia diventa veramente una famiglia di famiglie».


Da ex rettore per dodici anni del Pontificio Seminario Marchigiano “Pio XI” di Ancona durante i quali ha accompagnato al sacerdozio più di cento giovani e adulti, Napolioni traccia l’identikit del presbitero. «Il prete non può muoversi da solo, come avesse un potere “sacro” di cui è l’unico depositario. No, il prete deve essere un animatore di comunione che in certi momenti interloquisce quasi alla pari con giovani, famiglie, adulti. Un’esperienza di corresponsabilità che necessita di un fondamento imprescindibile: la comunione fra i preti. Solo se i sacerdoti sanno dialogare fra loro, riescono ad animare in modo non paternalistico e non manipolatorio la comunità. È la sfida della sinodalità che non va ridotta a tema per i convegni ma deve tradursi in un “camminare insieme” tutti i giorni».


Famiglie e giovani sono le priorità indicate da Napolioni. «Nei mesi scorsi ci siamo interrogati su come essere Chiesa dell’Amoris laetitia. E la risposta è stata che tutta la pastorale deve avere al centro la famiglia. Aggiungo che ritengo strategica un’alleanza fra preti e sposi. Così già dallo scorso anno ogni seminarista incontra regolarmente una famiglia con cui è gemellato». Poi i ragazzi. «Abbiamo anticipato il Papa indicendo qui un Sinodo dei giovani», scherza il vescovo. Perché a Cremona il Sinodo è già cominciato quest’anno con percorsi di riflessione, mentre i prossimi mesi saranno scanditi dai lavori in assemblea. «Mi è stato suggerito da un laico non appena sono arrivato. Intendiamo ascoltare i nostri ragazzi non tanto per delegare le responsabilità che come adulti e come una comunità educante abbiamo, quanto per scorgere il nuovo che Dio ci prepara attraverso le giovani generazioni». Ma i ragazzi sono una periferia esistenziale? «Direi di no, nel senso che non vanno lasciati nei ghetti che creiamo per loro. C’è urgenza di offrire spazi di sperimentazione, di tirocinio, di discepolato che oggi mancano».


Napolioni prega con le parole di Charles de Foucauld: “Rimetto l’anima nelle tue mani”. «Il suo esempio è una medicina all’attivismo pastorale, un antidoto alle tentazioni personali e a quelle del nostro tempo che ci impone di essere sempre in prima linea. Serve sapersi fermare per evitare che il tritacarne delle nostre agende ci tolga il piacere di contemplare il passaggio di Dio nella nostra vita. Un esempio? Ho proposto ai preti una volta al mese una passeggiata insieme». Altra figura cara al vescovo è don Primo Mazzolari, il parroco cremonese di Bozzolo, di cui lunedì è stata aperta la fase diocesana del processo di beatificazione. «L’ho conosciuto durante gli anni del Seminario attraverso i suoi scritti che adesso sto rileggendo da vescovo della sua terra. Noto una vicinanza impressionante fra il magistero di Francesco e la profezia di don Primo che ha fatto della chiarezza sulVangelo e sul servizio al popolo e ai poveri il perno del suo ministero. Di “preti così”, dico prendendo a prestito il titolo di un suo volume, abbiamo molto bisogno. La Chiesa ha oggi necessità di occasioni di dibattito che richiedono un confronto schietto, approfondito e sempre misurato sulla vita della gente. Come ci testimonia don Mazzolari».


CHI E' ANTONIO NAPOLIONI

Compierà 60 anni il prossimo 11 dicembre il vescovo Antonio Napolioni. Nato a Camerino, in provincia di Macerata e nell’arcidiocesi di Camerino-San Severino Marche, entra in Seminario negli anni dell’università e prosegue la sua formazione a Roma nella Pontificia Università Salesiana dove consegue il dottorato in teologia con la specializzazione in pastorale giovanile e catechetica. Ordinato sacerdote nel 1983, è direttore dell’Ufficio catechistico diocesano e vicario episcopale per la pastorale. Assistente nazionale dell’Agesci dal 1992 al 1998, è per cinque anni vicerettore e per dodici rettore del Pontificio Seminario Marchigiano “Pio XI” ad Ancona. Quando arriva la nomina a vescovo nel novembre 2015, è parroco di San Severino Vescovo a San Severino Marche. Nel gennaio 2016 riceve l’ordinazione episcopale a Cremona facendo il suo ingresso nella diocesi che guida.

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