sabato 24 marzo 2018
Durante il viaggio nel Paese mediorientale il presidente della Cei presenta il summit con i vescovi del Mediterraneo che si terrà in Italia. «I cristiani, faro di riconciliazione e dialogo»
Il cardinale Gualtiero Bassetti durante l'ìncontro con i patriarchi cattolici in Libano (foto Gambassi)

Il cardinale Gualtiero Bassetti durante l'ìncontro con i patriarchi cattolici in Libano (foto Gambassi)

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«Buon viaggio per Damasco». Il cardinale Gualtiero Bassetti si china verso l’auto scura e saluta Joseph Absi, patriarca cattolico greco-melchita. «Rientro in Siria ma non so che cosa potrà succedermi...», sussurra il primate. Il presidente della Cei gli stringe le mani sul finestrino aperto della vettura. Alle sue spalle ha Ignazio Giuseppe III Younan, patriarca siro-cattolico ed eparca di Beirut per i siri, poi Grégoire Pierre XX Ghabroyan, patriarca armeno-cattolico, e il “padrone di casa”, il cardinale Béchara Boutros Raï, patriarca della Chiesa maronita. L’auto parte dal grande piazzale del patriarcato, davanti al palazzo dallo stile semplice, ed elegante allo stesso tempo, incastonato a metà della collina di Harissa da cui si scorge l’azzurro intenso del Mediterraneo, la periferia di Beirut e, poco più in alto, la statua della Madonna che domina sul mare e protegge la nazione cara alla Bibbia.

Per la visita di Bassetti in Libano i patriarchi d’Oriente legati al Paese dei cedri si ritrovano assieme: fatto raro e quindi di particolare rilevanza. Con uno scopo preciso: dare il benvenuto al presidente della Cei e consegnargli idealmente i dolori e le speranze dei cristiani di Libano, Siria, Iraq, Armenia. E per Bassetti è l’occasione in cui lanciare uno degli eventi che come “guida” dell’episcopato italiano ha voluto: l’Incontro di riflessione e spiritualità per la pace nel Mediterraneo che vedrà arrivare nella Penisola i vescovi degli Stati affacciati sul grande mare. Un’iniziativa organizzata dalla Cei con il “beneplacito” del Papa e della Segreteria di Stato vaticana. «L’appuntamento si terrà probabilmente nella primavera 2019 – annuncia l’arcivescovo di Perugia-Città della Pieve –. Non è ancora stata decisa la sede: potrebbe essere la Sicilia oppure la Puglia, ponti storici fra Oriente e Occidente. Ma anche Firenze. E non perché io sia fiorentino ma perché ci ha ispirato la profezia del sindaco “santo” Giorgio La Pira che volle nel capoluogo toscano i Colloqui mediterranei e che definiva questo mare un “grande lago di Tiberiade”. Un mare che prima di essere un confine è un mezzo di comunicazione fra i popoli».

Perciò la comunità ecclesiale non può restare immobile di fronte alle «emergenze» – come le definisce il porporato – che si vivono lungo le sue sponde: dalle guerre all’esodo dei migranti, passando per le crisi politiche. «I cristiani – sottolinea il presidente della Cei –, per la loro origine “mediterranea”, per la ricchezza delle tradizioni, per il significato incontestabile della loro azione in tutti questi Paesi e non ultimo per la forza ecumenica del loro martirio che continua ancora oggi sono chiamati a offrire un contributo all’elaborazione di una prospettiva di dialogo e di riconciliazione del Mediterraneo. Il tutto tenendo conto del punto di vista delle periferie e della luce di misericordia del Signore e ascoltando le voci delle Chiese mediorientali e nord-africane che sperimentano in prima persona situazioni molto complesse».

O addirittura drammi, come quelli che a Bassetti riferiscono i patriarchi. «È bene sapere ciò che accade. E dobbiamo dire grazie alla Cei per il suo costante sostegno», spiega il cardinale Béchara Boutros Raï, patriarca della Chiesa maronita, camminando fra il chiostro e le sale della sua residenza. «Da vanti mesi – racconta Joseph Absi, patriarca cattolico greco-melchita – le strade di Damasco sono deserte. I giovani sono fuggiti. Nelle chiese restano soltanto anziani e bambini. Come comunità cristiane del Vicino Oriente abbiamo bisogno dell’appoggio dei nostri fratelli d’Occidente perché aprano gli occhi dei governanti». Quasi si commuove Ignazio Giuseppe III Younan, patriarca siro-cattolico, quando dice di affidare «all’Italia le sorti dei cristiani di questa regione». E aggiunge: «Fra pochi anni sia in Siria, sia in Iraq la nostra presenza potrebbe scomparire. È il caos il principale nemico che rischia di cancellare l’elemento cristiano dopo duemila anni». Si tocca la croce sul petto Grégoire Pierre XX Ghabroyan, patriarca armeno-cattolico, mentre rivela: «Avevamo sedici diocesi; ne resta appena una. Grazie al cielo il Libano ci ha dato ospitalità. E il patriarca maronita ha ribadito più volte a gran voce: “Sono miei figli, aprite le porte”».

Un’accoglienza che oggi coinvolge i profughi siriani. Nessuno sa esattamente quanti siano: forse un milione, forse un milione e mezzo di rifugiati – in gran parte musulmani – in mezzo a una popolazione che non supera i quattro milioni di abitanti ed è spalmata su un fazzoletto “verde” simile all’Abruzzo. «È come se in Italia arrivassero venti milioni di migranti – osserva Bassetti –. Da noi ci sono tensioni pretestuose. Ecco perché dovremmo prendere il Libano come esempio di prossimità, attenzione e integrazione di chi bussa alle sue frontiere». Le parole del cardinale risuonano nell’ambasciata italiana dove viene accolto da Simona De Martino, primo consigliere dell’ambasciatore a Beirut, e da Elia Caporossi, incaricato d’affari per la Siria. «Il Libano – evidenziano i due diplomatici – sta dando una lezione di pluralismo. E seppur fra le difficoltà rappresenta un modello che funziona, tanto che il dialogo è parte sia dell’assetto istituzionale, sia del sentire comune». Il riferimento è al fragile equilibrio raggiunto dopo la guerra civile che dal 1975 al 1990 ha insanguinato la “piccola Svizzera” del Medio Oriente. «Però fra i cristiani – fa sapere il vescovo francescano conventuale Cesar Essayan, vicario apostolico di Beirut – il timore di eclissarsi non dipende dalla convivenza con i musulmani, con cui abbiamo rapporti più che positivi, siano essi sunniti o sciiti, ma dalle guerre che esasperano il sentimento religioso fino a sfociare nel fondamentalismo e nella violenza». Chiarisce monsignor Ivan Santus, incaricato d’affari ad interim della nunziatura apostolica in Libano: «I discepoli del Risorto sono una presenza essenziale in questo contesto che permettono l’armonia fra le fedi perché sono uomini di dialogo. E oggi chiedono all’Europa che la linfa da cui è nato l’albero della loro testimonianza sia sostenuta».

Monsignor Santus accompagna Bassetti nei quattro giorni del suo «pellegrinaggio che vuole essere un segno di vicinanza della Chiesa italiana alle Chiese d’Oriente», afferma il porporato. Un viaggio promosso su invito del vicariato apostolico dei latini e della Fondazione italiana “Giovanni Paolo II” che dalla Toscana è in prima linea accanto all’unica nazione del mondo arabo dove i cristiani sono il 40% dei residenti. Con il porporato c’è il presidente della Fondazione, il vescovo emerito di Fiesole, Luciano Giovannetti, insieme a una delegazione della onlus impegnata nella cooperazione internazionale e nello sviluppo in Medio Oriente.
Per ventiquattro ore il volto del cardinale compare su telegiornali, quotidiani e siti Internet del Paese. Perché incontra il presidente della Repubblica, il cristiano maronita Michel Aoun, ex capo di stato maggiore e con un passato anche da premier. Nel salone dei ricevimenti del “Quirinale” di Beirut, il Palazzo di Baabda, Bassetti torna a parlare dell’Incontro per la pace nel Mediterraneo invocando «concordia fra le religioni e le culture». E Aoun chiede al presidente della Cei di «aiutare i cristiani del Medio Oriente» che sono «sempre più poveri» o costretti «ad abbandonare i villaggi in Siria, Iraq e Armenia» o ancora «vittime di attentati come in Egitto». Poi a Bassetti affida un sogno «da portare in Vaticano», dice: realizzare in Libano «un centro per il dialogo interreligioso» sotto l’egida dell’Onu.

«Bassetti» è l’unica parola scritta con i caratteri occidentali. Il resto dei vocaboli negli striscioni è in arabo. E si può leggere: «Benvenuto cardinale Bassetti. Qui cristiani e musulmani vivono uniti nella misericordia e nella carità». Sorride il presidente della Cei mentre alza lo sguardo verso i cartelli che lo accolgono lungo le strade di Tiro, nel Sud del Libano. A piedi percorre il cuore antico della città che lega il suo nome ai Fenici e oggi, con i suoi tesori archeologici, è parte del patrimonio Unesco. Affisse ai lampioni si alterano le bandiere verdi degli sciiti di Amal e quelle gialle di Hezbollah. Anche qui siamo in piena campagna elettorale. Perché a maggio si rinnova il Parlamento nazionale. E i movimenti politici – tutti marcati dall’elemento religioso – presidiano con i propri vessilli le vie principali.

Il Libano meridionale è la terra di quel “Partito di Dio”, Hezbollah appunto, che grazie alla sua ala paramilitare controlla ogni angolo. Ma Tiro è anche una singolare “enclave” della convivenza fra le fedi. «Sono diciotto le sigle religiose presenti nella zona», racconta al cardinale il generale Rodolfo Sganga, comandante del contingente di 4mila uomini di dodici nazioni (fra cui l’Italia) impegnato sul confine fra Libano e Israele nella missione di pace delle Nazioni Unite. Ed è a Tiro che si tiene nell’incontro interreligioso con Bassetti, uno fra gli eventi centrali della visita del presidente della Cei nel Paese mediorientale. A organizzarlo la locale arcidiocesi maronita. E a fare da cornice un salone della Cattedrale. Accanto al cardinale ci sono leader religiosi e politici: dalla ministra per lo sviluppo, la sciita Inaya Ezeddine, ai muftì sunniti e sciiti, compreso un rappresentante religioso di Hezbollah. «Carissimi fratelli», li chiama in più occasioni Bassetti nel lungo colloquio. E ricorda che «siamo tutti figli dell’unico Dio che è misericordia e ama ciascuno di noi». Quindi l’invito a «continuare a essere una sola cosa che è poi l’essenza del Vangelo». A Bassetti l’arcivescovo maronita Chucrallah-Nabil El-Hage tiene a far sapere che questa è «una terra benedetta dal Signore» dove «Cristo si è fermato» e in cui «adesso viviamo insieme come un’unica famiglia» diventando «davvero una scuola di perdono».

Vicino al cardinale siede la ministra. «Diciamo no alla violenza – afferma – e sì alla giustizia». Richiama la Quaresima il muftì sciita Hassan Abdallah per dire che «vivere nella fede è una ricchezza» e il «rispetto di ogni credente è fondamentale». Per questo, aggiunge, «respingiamo ogni forma di estremismo». E il muftì vicino a Hezbollah, Nawef al-Mausawi, cita san Giovanni Crisostomo per evidenziare che le religioni «sono faro per i popoli»; poi richiama il Corano quando esorta «a essere vicini a chiunque crede». E sarà il muftì sunnita Medran al-Habbal a caldeggiare l’incontro «fra mezzaluna e croce, fra moschea e chiesa» perché si crei «un movimento mondiale per proteggere l’uomo dal degrado morale e spirituale». Fino a osservare: «Molti hanno voluto dividere cristiani e musulmani. Oggi servono capi religiosi che desiderino camminare sulla stessa strada». È quanto «insegna il Libano, luce per l’Oriente e l’Occidente», ribadisce Bassetti. E precisa monsignor Ivan Santus, incaricato d’affari ad interim della nunziatura apostolica: «La comunione è possibile quando si trova un’intesa intorno al discorso su Dio. Ed è proprio il Signore che permette l’incontro».

Ci vogliono venti minuti di auto, salendo fra le colline che si affacciano sul mare, per arrivare alla base dei militari italiani della missione Unifil. Sono 1.100, adesso in gran parte paracadutisti della Folgore di Livorno, che si alternano nel supporto alle forze di sicurezza locali e nell’aiuto alla gente. Bassetti visita la struttura, accompagnato dal generale Sganga. «Il vostro è un impegno di pace», dice ai soldati. A quindici di loro il presidente della Cei conferisce il sacramento della Cresima.

«Si sono preparati con catechesi serali dopo giornate pesanti o notti di pattuglia», rivela il primo maresciallo Giuseppe Milano, accolito nell’arcidiocesi di Palermo, assieme al cappellano don Filippo. «È necessario testimoniare Cristo vivo che si dona a tutti», sollecita Bassetti durante la Messa. E di fronte all’intero contingente schierato per salutarlo il cardinale si rivolge ai giovani. «Molti di voi sono ragazzi. La Chiesa ha voluto un Sinodo sui giovani perché abbiamo bisogno della vostra freschezza e del vostro slancio. Vorrei che anche voi vi sentiate parte del Sinodo con lo spirito di sacrificio e di umanità che qui esprimete».

L’ultimo gesto del cardinale è l’abbraccio ai poveri. Una cena con i profughi cristiani di Siria e Iraq, le famiglie assistite attraverso il progetto dei “Corridoi umanitari” della Comunità di Sant’Egidio, i “dimenticati” di Beirut. «Nel cuore di Dio – dice il presidente della Cei – non esiste lo straniero. Il Signore ha creato la Terra affidandola alla famiglia umana che è una sola, che non può essere divisa. La pace è un dovere ma ha bisogno di giustizia. Non facciamo finta di non vedere. Impegniamoci con tutto il cuore e tutta la mente. Altrimenti tradiremo il Vangelo».

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