sabato 31 dicembre 2022
I temi chiave: basta tiepidezza e confronto tra fede e ragione. Nonostante fosse stato eletto a 78 anni, ha saputo dimostrare di essere più moderno di quanto osservatori e critici si aspettassero
I suoi otto anni di pontificato capaci di stupire e di dialogare
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È morto il Papa emerito Benedetto XVI, aveva 95 anni, e si era dimesso nel 2013 dopo un pontificato durato 8 anni. La Sala Stampa vaticana ha annunciato pochi minuti fa che la morte è sopravvenuta alle 9.34 nella residenza del Monastero Mater Ecclesiae, che il Papa emerito aveva scelto come sua residenza dopo la rinuncia al ministero petrino avvenuta nel 2013.

Che Papa sarebbe stato lo si capì subito. Dal suo primo affacciarsi alla loggia di San Pietro, in quel pomeriggio del 19 aprile del 2005, appena eletto, al terzo scrutinio di uno dei conclavi più brevi della storia. «Semplice e umile lavoratore nella vigna del Signore». E non solo per quelle sue parole, quanto per le maniche nere del golf che sbucavano da sotto la veste bianca nuova di zecca. Lui, sorpreso da un’elezione sicuramente non cercata e del tutto inattesa, sarebbe stato il Papa delle sorprese. Sempre capace di spiazzarti. Difficile pensare ad esempio uno dei teologi più grandi del nostro tempo come un umile vignaiolo. Eppure l’umiltà è stata uno dei tratti distintivi del Pontificato. Perché anche da Papa Joseph Ratzinger si è caricato addosso, come l’orso di san Corbiniano presente nel suo stemma papale, un fardello non suo (quella “sporcizia” nella Chiesa denunciata e sempre combattuta e persino lo scandalo vatileaks che arrivò a ferirlo nella sua stessa casa pontificia) e l’ha portato con grande sacrificio, in spirito di servizio.

Era la sua un’umiltà capace di lasciare stupiti. E perciò ammirati. Esattamente come ha fatto, ancora una volta, l’11 febbraio 2013, annunciando la rinuncia al ministero petrino. Capace sempre di fare quello che non ti aspetteresti mai, e di andare sempre oltre, un passo avanti. Anziano per l’anagrafe, certo, ma di una modernità sconcertante, che lo ha portato a innovare e dare slanci impensati a quello che sembrava già rivoluzionario in se stesso - leggi le Giornate mondiali della gioventù, o gli incontri interreligiosi di Assisi - battendo su due tasti principali: il richiamo dei credenti a uscire dalla “tiepidezza” della loro fede, e l’invito alle ragioni del mondo a confrontarsi in modo aperto e senza pregiudizi con le ragioni della fede.

Un “programma” che Ratzinger ha voluto esplicitare già nella scelta del nome come spiegò egli stesso nella prima udienza del suo pontificato, il 27 aprile 2005: «Ho voluto chiamarmi Benedetto XVI per riallacciarmi idealmente al venerato pontefice Benedetto XV, che ha guidato la Chiesa in un periodo travagliato a causa del primo conflitto mondiale... Sulle sue orme desidero porre il mio ministero a servizio della riconciliazione e dell’armonia tra gli uomini e i popoli, profondamente convinto che il grande bene della pace è innanzitutto dono di Dio, dono fragile e prezioso da invocare, tutelare e costruire giorno dopo giorno con l’apporto di tutti. Il nome Benedetto evoca, inoltre, la straordinaria figura del grande “Patriarca del monachesimo occidentale”, san Benedetto da Norcia, compatrono d’Europa insieme ai santi Cirillo e Metodio. La progressiva espansione dell’Ordine benedettino da lui fondato ha esercitato un influsso enorme nella diffusione del cristianesimo in tutto il Continente. San Benedetto è perciò molto venerato in Germania e, in particolare, nella Baviera, la mia terra d’origine; costituisce un fondamentale punto di riferimento per l’unità dell’Europa e un forte richiamo alle irrinunciabili radici cristiane della sua cultura e della sua civiltà».

Il coraggio, la coerenza, e la determinazione con cui Benedetto XVI, su quella falsariga, ha costruito un giorno dopo l’altro i suoi sette anni e dieci mesi di pontificato, sono impressionanti. Basterebbe pensare a quel che ha avuto il coraggio di fare nell’affrontare lo scandalo sugli abusi sessuali compiuto da esponenti del clero, portando con mano ferma un’autentica rivoluzione dove l’esigenza della giustizia e dei diritti delle vittime, messe al primo posto, non sono mai state separate dall’esercizio costante della misericordia. O a come ha saputo affrontare altre crisi potenzialmente devastanti - il discorso di Ratisbona del 12 settembre 2006, o il caso Williamson del gennaio 2009 - trasformandole con la sua tenace umiltà in altrettanti momenti di rilancio: mai il dialogo con l’islam aveva segnato un’accelerazione e un progresso così netto come dopo Ratisbona; mai il lungo, complesso confronto con lo scisma lefevbriano era arrivato al punto di mettere i ribelli di Econe a confronto diretto con le proprie contraddizioni interne.

Tutto questo, secondo lo stile che abbiamo imparato a conoscere, e ammirare, una gentilezza timida e prudente e, al tempo stesso, esigente. Uno stile che, se mai lo ha indotto a non concedere nulla alla polically correctness, mai gli ha impedito di andare ben oltre le attese: chi si sarebbe aspettato, il 28 maggio 2006, ad Auschwitz, che il Papa tedesco, nel luogo in cui i suoi compatrioti, oltre sessant’anni prima, consumarono uno degli atti del genocidio più gigantesco della storia, facesse propria la straziante domanda degli ebrei su dove fosse Dio in quei giorni? E chi, su tutt’altro fronte, sentendolo declinare il 30 marzo dello stesso anno, i tre “principi non negoziabili“ - tutela della vita, difesa della famiglia, diritto dei genitori all’educazione dei figli - si sarebbe aspettato di sentire la frase che seguì immediatamente quell’enunciazione: «Questi principi non sono verità di fede anche se ricevono ulteriore luce e conferma dalla fede. Essi sono iscritti nella natura umana stessa e quindi sono comuni a tutta l’umanità. L’azione della Chiesa nel promuoverli non ha dunque carattere confessionale, ma è rivolta a tutte le persone, prescindendo dalla loro affiliazione religiosa».È il nucleo della sfida antropologica che Benedetto XVI ha lanciato al mondo e, insieme, alla stessa Chiesa, invitando a un confronto senza maschere né pregiudizi, franco e leale.

Una sfida che in tre discorsi - a Parigi, il 15 settembre 2008, al Collège Des Bernardins; a Londra, il 18 settembre 2010, a Westminster Hall; a Berlino, il 22 settembre 2011, al Reichstag - ha trovato uno svolgimento altissimo e, forse, in gran parte ancora da approfondire. E che ad Assisi, nell’ottobre del 2011, tornando a convocare i rappresentanti di tutte le religioni a venticinque anni dalla prima volta di Wojtyla, volle per sé una sedia come tutte le altre, e che una di queste altre fosse riservata anche a un rappresentante dei non credenti. È sulla scorta di questa incrollabile fiducia in una intelligenza capace di superare tutte le difficoltà possibili che, ancora, si possono leggere i fondamentali progressi in campo ecumenico che, nei suoi quasi otto anni di pontificato, si sono registrati.

Quelli con gli ortodossi, soprattutto, con i quali il dialogo teologico sta oggi affrontando la questione centrale dell’esercizio del primato petrino. Ma anche quello con gli anglicani ai quali, nel delicatissimo passaggio storico che la Comunione anglicana sulla questione della consacrazione episcopale delle donne, con il Motu Proprio Anglicanorum coetibus del 4 novembre 2009 Benedetto XVI ha offerto a quei fratelli una vera mano fraterna - molto apprezzata dagli interessanti, che mai l’hanno vissuta come un’“aggressione” per “rubare” fedeli.

Di tutto questo, le tre encicliche che Benedetto XVI ha scritto - Deus caritas est, 25 dicembre 2005; Spe salvi, 30 novembre 2007, e Caritas in veritate, 29 giugno 2009 - sono la sintesi perfetta. Sintesi del dispiegarsi di un magistero attraverso le idee-guida che abbiamo viste, e nelle quali papa Benedetto ha dimostrato, a un tempo, la sua grandezza teologica e la sua capacità di rendere questa grandezza accessibile a tutti. Senza, con questo, impedire al professor Ratzinger, anzi a don Joseph, di affidare ad altri mezzi, e parliamo dei tre libri su Gesù, del libro-intervista Luce del mondo del 2010, e perfino dei recentissimi tweet, di continuare a manifestare con nuda franchezza l’umanità del «semplice e umile lavoratore nella vigna del Signore» chiamato nel 2005 a succedere «al grande papa Giovanni Paolo II».

Nel 1981 arrivava una nuova svolta che l’arcivescovo annunciava ai suoi fedeli con le parole: «Non è stato facile per me decidere. Il Papa mi vuole a Roma». Il compito che l’attendeva in Vaticano non era semplice: prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, seguendo le indicazioni emerse al Concilio voleva favorire gli studi miranti a far crescere l’ intelligenza della fede per dare delle risposte ai problemi del mondo contemporaneo. A questo scopo si riproponeva di mettersi all’ascolto dei vescovi e dei teologi. Questo non gli impedì, tuttavia, di pubblicare nel 1984 un severo rapporto sulla situazione della Chiesa. Avendo perso fiducia nelle proposte della tradizione, alcuni teologi facevano propria l’ analisi marxista del mondo e della storia. Ne derivavano, per il cardinale, alcuni postulati che per i cristiani sono inaccettabili: la lotta di classe presentata come inevitabile, l’accettazione della violenza.

All’epoca impopolare, la presa di posizione di Ratzinger si rendeva necessaria per la fedeltà al mandato petrino di tutelare l’unità della Chiesa, per favorire una teologia orante, per sostenere la fede dei fedeli. Del resto anche i vescovi, secondo Ratzinger, erano chiamati al coraggio per difendere la fede dei semplici, per essere una guida sicura verso le fonti dell’acqua viva. A sostenere i vescovi nel loro ministero, nel 1985 venne istituita una commissione per elaborare un nuovo catechismo. Il prefetto della Dottrina della fede, nominato presidente, affrontò l’incarico con competenza e autorevolezza. Disse Giovanni Paolo II nel 1992 al momento dell’approvazione: Il Catechismo della Chiesa Cattolica «è ben articolato e rispondente alle indicazioni dei padri sinodali, rispecchia fedelmente l’insegnamento del Vaticano II». Il giudizio del Pontefice venne confermato dal successo editoriale che portò il Catechismo del Vaticano II nelle case di tanti credenti.

All’inizio degli anni Novanta il cardinal Ratzinger si lasciava trascinare dall’entusiasmo di Giovanni Paolo II per l’edificazione di una nuova Europa. Tenne dunque diverse conferenze miranti a individuare gli errori all’ origine del tramonto del Vecchio Continente, per individuare i cardini del nuovo edificio. Le fondamenta da cui ripartire non potevano essere né il marxismo, definitivamente sconfitto con la caduta del muro di Berlino, né il positivismo materialista che rendeva sempre più vaga ed esausta la voce dell’Europa. Bisognava ritornare ai valori dello spirito, alle radici cristiane dell’Europa, a Socrate, Tommaso Moro e Newman, difensori della coscienza e della verità. Anche l’eredità ebraica, secondo il cardinale, era importante per i cristiani e per l’Europa. Per i primi Ratzinger sosteneva che vi sono molteplici religioni, ma un’unica alleanza: quella stipulata da Dio con Abramo, rinnovata con Mosè e portata a pienezza da Gesù Cristo. Per l’Europa e per il mondo, invece, egli riteneva che i dieci Comandamenti sono ancora oggi il fondamento più saldo per elaborare una morale rispettosa dell’uomo e della sua dignità. All’avvento del nuovo millennio il cardinale, da sempre attento ai movimenti ecclesiali, teorizzava per loro una collocazione ecclesiale. Essi sono nuove irruzioni dello Spirito per favorire la comunione nella vita della Chiesa, per contribuire alla diffusione del Vangelo. Nel 2002 il cardinale compiva 75 anni. Pensava di potersi ritirare per dedicarsi allo studio e alla preghiera, ma Giovanni Paolo II non volle neppure sentir parlare di dimissioni. Arrivavano, anzi, altri incarichi particolarmente onerosi: dagli Stati Uniti giungevano sempre più preoccupanti le notizie di abusi sessuali commessi da sacerdoti. A contrastare il fenomeno, che gettava un discredito generalizzato sulla gerarchia cattolica, il Papa chiamava ancora una volta in causa Ratzinger. Subito dopo la nomina, il cardinale emanava delle disposizioni più severe, si rendeva tuttavia conto che all’origine del fenomeno vi era una calo di tensione spirituale sulla quale bisognava intervenire fin dalla formazione dei nuovi sacerdoti.
Quasi contemporaneamente giungeva al cardinale una nuova nomina: decano del Collegio cardinalizio. Si trattava, per il momento, di un titolo poco più che onorifico, che più tardi, tuttavia, si rivelò decisivo per la sua elezione a Pontefice. Quasi a recuperare le indispensabili energie spirituali, nel mezzo di una vita così onerosa già da alcuni anni il cardinale pubblicava dei saggi di cristologia nei quali sosteneva l’ esigenza di avvicinarsi a Cristo non solo con il rigore della ricerca esegetica, ma anche con gli occhi della fede, con l’atteggiamento che portò Pietro a confessare: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente». Con queste premesse nel 2004 mise mano a quello che doveva diventare il primo volume della sua opera su Gesù di Nazaret.

Nel frattempo le condizioni di salute di Giovanni Paolo II andavano gradualmente peggiorando e gli impegni connessi con la carica di decano del collegio dei cardinali diventavano tutt’altro che onorifici. Bisognava pensare ai funerali che si trasformarono in un ininterrotto pellegrinaggio per un ultimo saluto all’amato Pontefice, accogliere i cardinali a Roma, creare le condizioni per le quali il Conclave potesse svolgersi in serena responsabilità. Ratzinger svolse il compito con competenza e sensibilità e questo contribuì a orientare il voto dei cardinali sul suo nome. Venne eletto Papa martedì 19 aprile 2005 e accettò l’incarico da una parte con il senso di umana inadeguatezza, dall’altra con gratitudine e abbandono nelle mani di Dio, consapevole di essere un «semplice e umile lavoratore nella vigna del Signore». Scelse il nome di Benedetto XVI avendo in mente la figura di san Benedetto, il padre del monachesimo occidentale, il cui ordinamento di vita basato sulla preghiera, il lavoro, lo studio egli intendeva far suo. Coscientemente, dunque, nel suo governo egli intendeva anzitutto pregare e meditare e, a partire da qui, prendere la sue decisioni.

Mosse i primi passi dall’eredità del Vaticano II, l’evento che egli collocava all’interno della tradizione ecclesiale prendendo le distanze dalle teorie della frattura tra il prima e il dopo Concilio. Del resto anche nella visione generale del mondo Ratzinger era contrario a ogni ipotesi di rottura. Ne reca traccia la sua prima enciclica, Deus caritas est (Dio è carità), in cui l’intera storia dell’ umanità è considerata un percorso ininterrotto guidato da luce e amore. Spinto alla conoscenza dall’amore, l’uomo può intuire il senso dell’intera creazione quale sarà poi svelato pienamente nell’incarnazione del Figlio di Dio. Di qui, per papa Benedetto XVI, la validità della ricerca umana e delle religioni e la novità della rivelazione cristiana. Su questa base egli favorì il dialogo tra le religioni nonostante la crisi seguita al discorso di Ratisbona. Erroneamente accusato di aver tacciato l’Islam di violenza, il Papa in realtà invitava tutte le religioni a non affidarsi esclusivamente all’elemento mistico, le esortava invece a restar fedeli alla ragione e ad allontanare da sé qualsiasi pulsione e sospetto di violenza. In ambito cristiano egli favorì l’ecumenismo esteso anche alla fraternità san Pio X fondata dal vescovo Marcel Lefebvre. Su questo punto, tuttavia, numerose furono le resistenze all’interno della Chiesa da parte di quanti consideravano eccessive le concessioni fatte ai lefebvriani in ambito liturgico. Altro motivo di resistenza fu la decisione del Papa tedesco di metter mano alla riforma della Curia Romana. Di qui la decisione di affidare la carica di segretario di Stato un suo antico collaboratore, il cardinal Tarcisio Bertone.
Altra grave difficoltà legata al pontificato di Benedetto XVI fu lo scandalo dei preti pedofili. Su questo punto il Pontefice agì su un duplice fronte. Invitò i vescovi a denunciare i responsabili alle autorità civili, soprattutto li esortò a prendersi cura delle vittime. Egli stesso diede l’esempio incontrando ogni volta nei suoi viaggi le vittime e i loro familiari, soffrendo con loro, invitandoli, tuttavia, a non perdere la fede e la speranza. Ritornando al clero egli cercò di trasmettere ai vescovi e ai sacerdoti nuovo entusiasmo, nuova gioia nella loro missione. Per questo indisse l’Anno paolino (dal 28 giugno 2008 al 29 giugno 2009) per imparare da san Paolo l’importanza di un rapporto personale con Gesù, l’adesione convinta alla Chiesa, l’importanza della predicazione cristiana. Più esplicita ancora la finalità dell’Anno sacerdotale (dal 19 giugno 2009 all’11 giugno 2010) durante il quale i preti venivano invitati a partecipare a convegni di studio, a giornate di riflessione e di esercizi spirituali. Naturalmente il Papa aveva in mente anche l’intero popolo cristiano per il quale, a rendere concreto l’invito all’universale vocazione alla santità nella Chiesa proposto dal Vaticano II, nelle sue catechesi del mercoledì espose le vite dei santi dall’epoca apostolica al Medioevo come un percorso ininterrotto, come un modo sempre nuovo di leggere e interpretare il Vangelo, di accostarsi a Cristo e al suo insegnamento. Convinto sostenitore dell’annuncio del Vangelo, Benedetto XVI non mancò di intraprendere dei viaggi per portare la sua parola di incoraggiamento ai cattolici dell’America Latina, dell’Africa, degli Stati Uniti levando la sua voce a difesa dei poveri, richiedendo agli stati d’Europa un più corretto atteggiamento soprattutto nei confronti degli africani. Una particolare attenzione il Papa rivolse anche ai cattolici cinesi coinvolti nella preparazione di una lettera che doveva essere la base di partenza per il superamento di una Chiesa patriottica e una fedele a Roma, per la loro collaborazione alla vita del loro grande paese. All’Europa il Papa rivolse un messaggio epocale in un famoso discorso tenuto al collegio dei bernardini a Parigi. Prendendo lo spunto dal luogo dell’incontro il Papa parlò del desiderio dei monaci di incontrare Dio. Nella loro ricerca essi avevano, però, scoperto che il Dio che essi desideravano incontrare aveva già rivolto all’uomo la sua parola. Di qui l’amore alla parola, più in generale alla cultura la quale, a sua volta, ha una dimensione sociale, genera condivisione e comunione. In breve da Parigi, la capitale dei lumi, Benedetto XVI proponeva un nuovo umanesimo per il 2000, una visione del mondo che non escludesse Dio dalla vita pubblica, ma ne tenesse conto per dare fondamento a una nuova civiltà edificata sul rispetto dell’uomo, della sua dimensione spirituale. Nel 2012 il Papa indiceva un Anno straordinario della fede (dall’11 ottobre 2012 al 24 novembre 2013) per sfuggire alla stanchezza dell’ Europa, per recuperare la gioia dell’adesione al cristianesimo.

Nel frattempo, però, si manifestavano delle difficoltà nel governo della Chiesa. La crisi divenne palese quando un collaboratore della Casa Pontificia, l’aiutante di camera Paolo Gabriele, decise di render pubblico lo scontento di settori della Curia portando a conoscenza della stampa alcuni documenti riservati sottratti dalla scrivania del Papa. Quasi in contemporanea con il cosiddetto Vatileaks, si verificava un significativo deterioramento delle condizioni di salute del Pontefice. Nel marzo del 2012 egli intraprese un viaggio in Messico e a Cuba che portò a dei risultati significativi. Al ritorno a Roma, tuttavia, il Pontefice cadde in uno stato di prostrazione fisica dovuta soprattutto al fuso orario. Da quel momento Benedetto XVI si confrontò seriamente con il pensiero delle dimissioni. Nell’estate a Castel Gandolfo portò a termine il terzo volume del libro su Gesù, il riposo estivo tuttavia non portò il recupero necessario al governo della Chiesa. Di qui la decisione delle dimissioni che vennero rese note l’ 11 febbraio del 2013. Esse diventarono poi esecutive il 28 dello stesso mese quando Benedetto XVI lasciò Roma per un periodo di riposo a Castel Gandolfo. Per la prima volta in epoca moderna un Papa rinunciava all’esercizio dell’ autorità connessa con il mandato di successore di Pietro. Decideva nello stesso tempo di rimanere nel recinto di Pietro prendendo alloggio nel monastero Mater Ecclesiae in Vaticano per sottolineare la comunione con il suo successore, l’ obbedienza cui non è mai venuto meno. La successiva storia di amicizia e vicinanza tra Benedetto XVI e papa Francesco fa parte dell’eredità spirituale lasciata alla Chiesa, un modello che apre orizzonti di speranza per il futuro.

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