Un fulmine a ciel sereno, che ha generato un allarme in svariati Paesi del Consiglio d’Europa, spingendoli a entrare in contatto con noi per difendere un simbolo che appartiene anche alla loro tradizione».
Nicola Lettieri, rappresentante dell’Italia a Strasburgo nel dibattimento del 30 giugno davanti alla Grande Chambre, e ora giudice di Cassazione, racconta le reazioni provocate dalla sentenza di primo grado che ha dato ragione al ricorso di Soile Lautsi, alla Corte europea dei diritti dell’uomo contro l’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche.
Un pronunciamento sconcertante, dunque, quella sentenza di primo grado...Infatti sarebbe stato auspicabile che la camera giudicante, in caso di una prevalenza dell’orientamento negativo per il nostro Paese, rinviasse la decisione alla Grande Chambre.
Su che base?La presenza dei simboli religiosi in uno spazio pubblico è un tema di grande importanza, non è una cosa che può decidere una semplice camera di sette componenti, anche perché la giurisprudenza europea è fatta di precedenti, sull’esempio di quella anglosassone. In questa materia precedenti non ce n’erano, quindi il pronunciamento sarebbe spettato direttamente alla Grande Chambre con un’udienza pubblica nella quale sono presenti metà dei giudici della corte.
Quale la strategia difensiva all’indomani del 3 novembre 2009?Dimostrare che era una questione controversa negli ordinamenti europei. E quindi gli Stati, in base al cosiddetto "margine di apprezzamento", la possono regolare come meglio credono, entro un certo limite di ragionevolezza.
Ma come avete fatto ad ottenere che ben dieci Paesi presentassero memorie a nostro favore...In realtà all’inizio siamo stati noi ad essere contattati. A cominciare dalla Lituania, Malta, San Marino, vari Paesi si sono messi in rapporto con noi, perché preoccupati di un pronunciamento contrario alla loro stessa tradizione. Nella conferenza sul futuro della Corte a Interlaken, nel febbraio del 2010, il ministro della Lituania criticò pubblicamente la sentenza.
Ma altri Paesi sono rimasti inerti...Da vari pourparler è emerso che non era indifferenza, ma paura che una loro esplicita presa di posizione a nostro favore, nella prospettiva di una probabile conferma della sentenza di primo grado, finisse per avere ripercussioni negative nei loro ordinamenti per quanto riguarda la presenza della religione nello spazio pubblico.
Avete cercato di coordinare le memorie presentate dai vari Paesi?Il Centre for Law and Justice di Strasburgo, diretto da Grégor Puppinck, ha organizzato un convegno sul tema al quale ha partecipato anche il professor Joseph Weiler. Abbiamo pensato che proprio lui fosse la persona più adatta a parlare in nome degli altri paesi che avevano presentato una memoria. Infatti, dopo il nostro ricorso, ci è stato concesso un riesame del caso con dibattimento davanti alla Grande Chambre.
Così a difendere il crocifisso è stato chiamato un giurista ebreo osservante...Non era più una questione di una parte, ma in qualche modo universale: i simboli religiosi in quanto tali. Weiler, da parte sua, si è detto disposto a difendere la posizione degli altri Paesi gratuitamente, solo con il rimborso delle spese di viaggio e soggiorno.
È intervenuto a Strasburgo con la kippah in testa...Sì. Poteva sembrare perfino una provocazione, se si pensa che la Corte europea ha sempre dato ragione ai Paesi che hanno proibito di indossare simboli religiosi nell’abbigliamento personale. Ma il coraggio alla fine paga sempre.
E la sentenza di venerdì ha dato ragione all’Italia.Dimostra che la nostra posizione era giusta. Quella sentenza è tutta basata sulle nostre argomentazioni.