mercoledì 7 dicembre 2011
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​È un mistero italiano e tale resterà. Trent’anni di indagini non hanno permesso di scoprire che cosa stia dietro al traffico di agenti segreti, faccendieri, presunti emissari delle guerriglia sahariana che senza dare nell’occhio hanno imbastito intrighi spionistici intorno a 64 barre di uranio irraggiate custodite (in sicurezza, dicono) nell’ex Centro Enea a Trisaia di Rotondella (Matera).È qui che a partire dagli anni Settanta è avvenuto il riprocessamento di combustibile nucleare estero. Ufficialmente qui sarebbero arrivati solo gli elementi di combustibile provenienti dal reattore nucleare americano di Elk River, nel Minnesota.Gli accertamenti non hanno consentito di raccogliere prove, «ma neppure – spiegano fonti investigative – di cancellare i tanti sospetti sul traffico internazionale di componenti per armamenti nucleari, né quelli per il business dello smaltimento dei rifiuti radioattivi».L’indagine ha permesso di accertare l’interesse dei servizi segreti di diversi Paesi per le attività che avvenivano nel Centro della Trisaia. Tra i protagonisti della <+corsivo>spy story<+tondo> c’è Guido Garelli, sedicente "ammiraglio" dell’esercito dell’Autorità Territoriale del Sahara Occidentale (ovvero dei combattenti del Fronte Polisario, che lotta per l’indipendenza dal Marocco) e "dignitario" di un servizio d’intelligence che avrebbe operato nell’interesse del Regno Unito, con base a Gibilterra. Un racconto sulle prime strampalato, ma che poi ha trovato inattese conferme.Garelli era infatti in possesso di tripla cittadinanza: Jugoslava, italiana e del Sahara occidentale. Per conto degli 007 del Regno Unito avrebbe spiato il centro Enea nel periodo in cui, nell’ambito di accordi di ricerca e scambio informativo nel settore dell’energia atomica, venivano ammessi a Trisaia tecnici dell’Iraq e del Pakistan. L’inchiesta ha rivelato che anche i James Bond americani della Cia, gli 007 israeliani del Mossad e gli italiani del Sismi hanno "sorvegliato" i frequentatori della struttura nel timore di vendite del materiale strategico a Paesi del Medioriente.I riscontri ottenuti dai carabinieri alle dichiarazioni di Garelli hanno dato esiti sorprendenti. L’ammiraglio ha raccontato che una sera, sul finire degli anni Ottanta, in occasione di una delle missioni per conto dei servizi segreti inglesi, era rimasto appiedato a causa di un guasto alla sua Fiat Croma dell’Esercito territoriale del Sahara (Ets), appunto targata "ETS 015 EM". Quasi 20 anni dopo, i militari individuarono l’officina presso la quale Garelli abbandonò l’auto. I carabinieri quasi non credettero ai propri occhi quando il titolare, armeggiando tra vecchie targhe, ne tirò fuori una: ETS 015 EM.I piani per il futuro non cancellano le ombre di ieri. Nel 2012 a Rotondella sarà realizzato il 51 per cento del programma di smantellamento dell’impianto Itrec-Enea, che sarà completato entro il 2019, con due anni di anticipo sulle previsioni del precedente piano industriale: le 64 barre di uranio irraggiato contenute nel sito entro il 2013 saranno stoccate in due contenitori cilindrici in acciaio, in attesa di essere trasferite in un deposito nazionale.Intorno alla Trisaia, prima che l’Italia abbandonasse la politica di energia nucleare, non avrebbero agito solo gli 007. Ha raccontato il controverso pentito della ’ndrangheta Francesco Fonti che un clan della Locride si sarebbe servito di lui per mantenere i contatti con il Centro di Rotondella, nel quale sarebbero stati "lavorati" parecchi fusti contenenti scarti di lavorazioni di materiale radioattivo, destinati poi allo smaltimento a cielo aperto in Somalia.Le prove di queste spedizioni le ha trovate un anno fa Greenpeace, non lontano dalla capitale somala, dove sono state raccolte testimonianze che dimostrano come «il porto di Eel Ma’aan, 30 km a Nord di Mogadiscio, è stato costruito (da imprenditori italiani) interrando nei moli – si legge in un rapporto dell’organizzazione ambientalista – «centinaia di container di provenienza assai sospetta». Da lì i veleni non si sarebbero più mossi. Le autorità italiane ne erano al corrente almeno dal 1999. Un rapporto investigativo del 24 maggio di quell’anno è ineqivocabile: «I container interrati nel porto di Eel Ma’aan – si legge – erano pieni di rifiuti: fanghi, vernici, terreno contaminato da acciaierie, cenere di filtri elettrici».
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