mercoledì 8 febbraio 2017
Il presidente del Cnt Nanni Costa: gli 007 lavorino insieme. Il vero problema nel mondo è quantificare il fenomeno. In Italia il sistema di controllo funziona correttamente
Alessandro Nanni Costa

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Una task-force internazionale delle polizie e la chiarezza sui numeri. Solo così si potrà affrontare il problema del traffico d’organi. Il presidente del Centro nazionale trapianti, Alessandro Nanni Costa, rassicura sul sistema di controllo del nostro Paese e invita a «lavorare insieme» per arrivare ad una politica di contrasto condivisa a livello internazionale, nella Giornata internazionale contro la tratta.

Ci sono stati episodi nel nostro Paese?
Abbiamo avuto un migrante che all’arrivo a Palermo si è scoperto gli era stato prelevato un rene nel deserto. È ovvio che un organo non può essere sottratto nel deserto, però è possibile che qualcuno venga portato in ospedale dove si fanno trapianti e poi reimmesso nella corrente migratoria. Un altro episodio poi a Milano, durante un controllo medico: ci si è accorti che ad un migrante mancava rene. Anche questo, proveniente dal Sud Sudan, ha detto che il rene gli era stato prelevato nel deserto, non certo a propria insaputa. Quello che è certo che non sono scelte volontarie, queste persone sono vulnerabili e subiscono forme di violenza che li inducono a questo.

Come si può contrastare il fenomeno?
Stiamo cominciando a pensare, dopo la collaborazione con tutte le autorità di frontiera, anche a rafforzare l’impegno di chi accoglie per capire se sul corpo dei migranti ci sono cicatrici o segni che possano far pensare ad un’asportazione d’organo. Il vero problema è che nessuno conosce i numeri reali; ci sono Paesi come l’Egitto che non danno più nemmeno le cifre ufficiali dei trapianti. La questione è che spesso mancano autorità governative, le attività illegali del prelievo d’organi hanno luogo solitamente in posti dove non sono considerate illegali o in qualche modo vengono tollerate. Il trapianto è una operazione complessa, perciò solo dove le autorità politiche e mediche non si oppongono con forza, si pratica di più anche nell’illegalità. Quindi bisogna agire in queste zone d’ombra, perché poi se non si conoscono i numeri è difficile fare politiche efficaci.

A quali interventi pensa?
Credo ci debba essere una forte correlazione tra le polizie, le agenzie investigative nazionali e una maggiore collaborazione internazionale. Serve l’appoggio dei dottori, perché c’è sempre l’apporto dei medici, o perché partecipano all’espianto o perché c’è un medico che manda un paziente in quella nazione per ottenere un trapianto. L’Italia ha firmato un trattato a Santiago de Compostela su questo tema, non ha problemi di norme, abbiamo solo la necessità di collaborare con gli altri Stati per capire cosa succede nel mondo.

Ci sono italiani che però vanno a eseguire trapianti all’estero...
Negli ultimi dieci anni sono appena 805, ormai il trapianto per gli italiani all’estero è una fascia ridotta, circa l’1%, mentre ci sono 8.700 in lista d’attesa in Italia. Di solito si va in Belgio, in Francia, negli Stati Uniti dove c’è comunque una regolamentazione stringente. E in più la migrazione italiana per i trapianti – assolutamente marginale – è sempre controllatissima, anche perché altrimenti il Ssn non rimborsa. Insomma, il nostro sistema di controllo funziona benissimo sia in entrata che in uscita.

Cosa si aspetta da questo summit?
Le proposte su cui stiamo discutendo sono assolutamente condivisibili ed è un bene ci siano rappresentanti di tutte le culture e di tutte le religioni. Il cambio di rotta di alcuni Paesi però dipenderà dall’azione delle autorità internazionali, che sono politiche, sanitarie e morali.

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