giovedì 28 dicembre 2023
Cattiva accoglienza, burocrazia lenta che nega documenti e diritti, mancanza di cure sanitarie. Una vicenda che dovrebbe fare riflettere chi ha responsabilità politica e amministrativa
Un momento della preghiera nella parrocchia di Sant'Erasmo di Formia per Madoussou

Un momento della preghiera nella parrocchia di Sant'Erasmo di Formia per Madoussou - Collaboratori

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La morte del figlio subito dopo la nascita, il viaggio a febbraio dalla Tunisia a Lampedusa su una delle barche di latta, il naufragio, il salvataggio, poi un altro viaggio fino a Formia, dove per 5 mesi nel Cas che la ospita non si accorgono che sta molto male. Solo quando passa a un secondo Cas scoprono che ha la Tbc e l’Aids in fase terminale. Ma è tardi, trasferita allo Spallanzani di Roma muore ad agosto.

È la drammatica storia degli ultimi 8 mesi di vita di Madoussou, 36 anni della Costa d’Avorio. Morta senza documenti, per le lentezze burocratiche, morta senza identità, senza il suo vero nome perché lo avevano sbagliato a Lampedusa. E senza un’adeguata assistenza sanitaria. Una storia sicuramente di pessima e assurda accoglienza. Anche per questo domenica nella parrocchia di S. Erasmo di Formia, dopo la messa, si è fatto un momento di preghiera, tutti insieme, cattolici e musulmani (ci sono tanti immigrati nel territorio parrocchiale), anche le amiche di Madoussou, ospiti anche loro nel Cas.

«Lo facciamo spesso, una volta al mese e la chiamiamo “La preghiera al Dio unico” – ci spiega il parroco, don Alfredo Micalusi, che è anche direttore della Caritas dell’arcidiocesi di Gaeta –. Piccole cose che contribuiscono ad una narrazione diversa. Ma questa volta l’abbiamo voluta dedicare a Madoussou, per chiederle scusa per come non siamo riusciti ad accoglierla, a curarla, a salvarla». Così si è pregato tutti insieme. “Signore, insegnaci ogni giorno come accogliere i fratelli che incontriamo sul nostro cammino, per imparare a conoscerci e costruire insieme percorsi di pace. Fa che la nostra voce abbia il coraggio della denuncia, perché la vita di ogni migrante e rifugiato possa essere custodita e promossa in tutto il valore della sua dignità”. Come purtroppo non è stato per Madoussou.


La donna, 36 anni, della Costa d’Avorio è arrivata a Lampedusa già gravemente malata ma nessuno se n’era accorto. Poi il decesso allo Spallanzani di Roma. La preghiera nella parrocchia di S. Erasmo di Formia, per ricordarla e «chiedele scusa»

La sua storia, il suo dramma, ce li racconta Federica Marciano, presidente della cooperativa Alternata che gestisce il Cas “La casa giusta” all’interno di una villa confiscata a Formia. «Siamo in piena emergenza sbarchi, prima avevamo 18 ospiti ora 30. Solo donne con 7 bambini. Quasi tutte ivoriane e tunisine. Vittime di tratta. Arrivate a Lampedusa con gli sbarchi recenti. Abbiamo pressioni ogni settimana dalla prefettura per prenderne di più, ma noi non accettiamo. Non possiamo accoglierne di più. Io voglio tenere la mamma coi figli senza altre persone in camera. E poi con 20 euro a persone non è più sostenibile. Prima con 33 euro riuscivano a fare tirocini lavorativi. Ora oltre a dare mangiare, dormire, la parte sanitaria, i documenti, non possiamo fare altro. Invece con le donne per toglierle dalla strada serve un lavoro. È deprimente».

Donne che corrono il rischio di finire nel giro della prostituzione, anche a Formia. «Non sono molto giovani, mentre prima arrivavano anche minorenni, ma non lo dicevano. Donne che hanno vissuto in Tunisia per anni e poi espulse per far pagare la crisi economica agli immigrati subsahariani».

È anche la storia di Madoussou, partita due mesi dopo aver perso il figlio, lasciando il marito in Tunisia. Il viaggio della speranza, che diventa anche della sopravvivenza quando viene salvata dopo il naufragio. A Lampedusa nessuno si accorge delle sue gravi condizioni di salute e così nella prima cooperativa di Formia dove rimane cinque mesi. Anche perché non ha un’identità. «Era partita, come più o meno tutte, senza documenti.

Allo sbarco dichiarano l’età e il nome, e sulla base di quello che dicono si dovrebbe fare il C3, il documento dei richiedenti asilo. Ma per averlo noi aspettiamo 6-7 mesi. In questura a occuparsi di questo c’è solo una persona per tutta la provincia di Latina. Ho avuto donne senza documenti per tre anni. Un limbo impossibile».

Oltretutto a Lampedusa l’avevano registrata col nome sbagliato, some succede spesso. E per cambiarlo bisogna aspettare la Commissione che ancora non l’aveva convocata. Era praticamente un fantasma. E questo ha reso difficile accertare le sue condizioni di salute. Aveva ricevuto l’Stp, il tesserino che dovrebbe garantire l’assistenza sanitaria anche a chi non ha permesso di soggiorno. «Ma a Formia non c’è più il medico per questo servizio e bisogna andare alla Asl di Latina che ha un servizio per gli immigrati. Noi solitamente quando arrivano le donne facciamo lo screening infettivologico, ma lo dovrebbe prescrivere proprio il medico Stp. Allora ci siamo rivolti alla Asl, ma ci è stato detto che non si può più fare. Secondo loro l’emocromo è sufficiente».

Non solo una questione medica. «Quando abbiamo chiesto uno screening per la Tbc ci hanno risposto che poteva diventare un problema sociale se la gente veniva a sapere che lì c’era un focolaio di Tbc». Così solo un mese fa sono riusciti a fare lo screening a tutte le ospiti. Ma perché hanno avuto il C3 e quindi hanno potuto scegliere il medico di base e attraverso lui ottenere le analisi.

Troppo tardi per Madoussou. «Quando è arrivata a fine luglio, ci siamo subito accorti che non stava bene, troppo calma. Era evidente che c’era un problema. Non era solo debilitata. Ci toccava in continuazione, non ci vedeva. Le abbiamo fatto gli occhiali ed era contentissima. Ma il suo problema non erano gli occhi. Eppure il suo emocromo era perfetto. Poi ha avuto un’influenza, l’abbiamo portata al pronto soccorso dove hanno rilevato subito valori epatici molto alti ed è uscito fuori tutto, Tbc e Aids. È stata ricoverata a Latina ma sono collassati tutti gli organi, è stata trasferita a Roma allo Spallanzani dove è morta a ottobre. Non è stato possibile fare nulla. Aveva ricevuto la convocazione in questura proprio mentre era ricoverata. Ma ormai era tardi».

La donna non sapeva di avere l’Aids. «Quando glielo abbiamo detto era rimasta stupita: «se è vero mi butto dalla finestra». Non è riuscita a reagire, anche perché gli ultimi mesi della sua vita sono stati un dramma dopo l’altro. Anche altre arrivano con l’Hiv, lo scopriamo, facciamo le terapie, hanno dei figli assolutamente sani, ma devi prenderle in tempo».

La rabbia maggiore, denuncia Federica, «è che da febbraio a luglio si potevano fare tante cose. Che non avesse avuto nessun intervento sanitario è gravissimo. Invece bisognerebbe fare tutto velocemente, è una questione di salute e sicurezza». Purtroppo anche dopo la morte Madoussou è rimasta un fantasma. «Volevamo farle il funerale musulmano. Quindi abbiamo contattato la comunità islamica di Roma. Per oltre un mese hanno cercato dei documenti all’ambasciata mentre il corpo restava allo Spallanzani. Ma non siamo riusciti. Così è stata sepolta a Prima Porta. Senza alcun rito, alcuna preghiera».

«E sempre col nome che le avevano dato a Lampedusa, Modussù. Neanche da morta siamo riusciti a darle il nome vero. Era come se fosse morta nel deserto, senza identità. È straziante». Proprio per questo la comunità parrocchiale, la Caritas e le amiche hanno voluto il momento di preghiera. E hanno parlato soprattutto le donne.

Regina: «Gli occhi mi si riempiono di lacrime ogni volta che penso a te, ma non ho paura, è la volontà di Dio». Khady: «Noi siamo come un cuore unico. Sappiamo che la malattia l’ha fatta soffrire tanto, è per questo che voglio pregare per lei». Dalla Tunisia si collega il marito: «Non ti dimenticherò mai. Mi hai dato tanta speranza. Eri piena di vita ma la morte ha avuto ragione su di te. Riposa in pace nella tua nuova vita mia cara Madoussou». Finalmente quel nome, il suo nome.




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