lunedì 16 gennaio 2012
​Il racconto in diretta di Luciano Castro, giornalista romano a bordo della Concordia. Lo sfogo di chi c’era: "Il personale era inebetito. Un vero e proprio assalto alle scialuppe".
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​Il boato è arrivato subito dopo la crema di patate e cipolle: eravamo seduti a tavola, aspettando che servissero il secondo quando c’è stato il botto. Il fragore è stato assordante, il tremore altrettanto. La nave ha cominciato a inclinarsi, i piatti i bicchieri e le posate a cadere per terra aggiungendo frastuono al frastuono. Poi c’è stato il black out, il buio totale. È stato subito chiaro che la chiglia del Concordia aveva incontrato un ostacolo. È capitato a tutti di tirare a riva una barca, di sentire il rumore che fa il fondo dello scafo quando striscia sui sassi. Ecco: moltiplicate quel rumore per un milione di volte e avrete un’idea approssimativa di quello sentito da noi passeggeri. La gente ha cominciato a precipitarsi fuori dalla sala, io mi sono fermato per aiutare una giovane donna al quinto mese di gravidanza, in pieno attacco di panico: insieme al marito l’abbiamo stordita di rassicurazioni, indicandole a esempio la placidità del personale – quasi tutto di origine asiatica – che restava impassibile al proprio posto. In realtà, i camerieri erano inebetiti, incapaci di reagire, del tutto impreparati ad affrontare la situazione. Intanto, l’altoparlante diffondeva una serie di messaggi in codice: india-tango, india-tango – ripeteva la voce – e a seguire una serie di numeri. Indicazioni al personale, di proposito rese incomprensibili ai passeggeri. Dopo una ventina di minuti, a nome del comandante siamo stati avvisati che si trattava di un problema elettrico. Avviso che è stato ripetuto una seconda volta, un quarto d’ora più tardi. Ma che si trattasse davvero di un guasto elettrico era altamente improbabile.Quando ho guardato fuori dalle grandi vetrate del Ristorante Milano, il ristorante dove stavamo cenando, ho visto il molo e ho subito realizzato che la nave aveva ruotato di 180 gradi sul proprio asse. Nelle fotografie si vede benissimo: la prua della Concordia guarda a Sud ma noi stavamo viaggiando verso Nord. E l’altra cosa subito evidente è stata che eravamo vicini, troppo vicini. La gente intanto si stava assiepando sui ponti esterni, il personale cominciava a indirizzare i passeggeri verso le scialuppe. Quelle della fiancata che stava sprofondando in mare ormai erano sull’acqua, le altre si erano adagiate sulla chiglia e incastrate nel gran numero di infrastrutture della nave, nei tanti terrazzini, ringhiere, murate... La scialuppa a cui sono stato destinato – la numero 14 – ha dovuto essere liberata a colpi di ascia. Ma quando il nostro gruppo – più di cento persone – è stato a bordo e il personale ha chiuso i cancelli di collegamento per cominciare la procedura di allontanamento la situazione si è fatta tesissima. Alcuni passeggeri, accortisi della manovra, hanno scansato malamente gli addetti e hanno cercato di salire a bordo. Alcuni si sono lanciati nella scialuppa a peso morto, rischiando di sovraccaricarla e mettendo in pericolo le vite di tutti. Fortunatamente siamo arrivati sani e salvi al molo dell’isola del Giglio. Lì non abbiamo trovato nessuno, eravamo in quattromila. Disorientati, bagnati e spaventati: se non ci fossero stati gli isolani ad aiutarci non so come avremmo fatto. Ci hanno messo a disposizione la chiesa, le case, gli alberghi, gli uffici comunali... Le istituzioni, però, non c’erano. E i soccorsi hanno privilegiato l’intervento sulla nave, togliere da lì il maggior numero di persone nel più breve tempo possibile. Una volta a terra, però, siamo stati abbandonati a noi stessi. La gente girovagava senza meta, con le coperte – regalo dei gigliani – in spalla: la mia è dell’hotel Da Ruggero, ho promesso che la restituirò... Anche il trasporto a Porto Santo Stefano dei naufraghi non è stato a costo zero: immaginate cosa significa essere reduci da un naufragio e dover affrontare subito un altro viaggio per mare... I bambini piangevano, molti adulti non volevano saperne: se solo ci fossero stati consulenti, psicologi, infermieri che avessero saputo dire le parole giuste, tutto sarebbe stato meno doloroso. Luciano CastroLa giovane coppia: «Il mio viaggio di nozze? Indimenticabile...»«Sognavamo un viaggio di nozze indimenticabile. Non si può dire che non l’abbiamo avuto...». Carla P., romana, 31 anni, trova la forza di fare dell’ironia su quanto accaduto all’Isola del Giglio. Si era imbarcata venerdì pomeriggio a Civitavecchia con Gianluca C., suo marito da cinque giorni, per un tour del Mediterraneo regalato da parenti e amici e sognato per mesi. «Eravamo a cena quando abbiamo sentito un boato e nella sala è calato il buio mentre la nave ha cominciato a inclinarsi». Da quel momento in poi «è stato un caos indescrivibile. Sono stati tutti molto gentili ma l’idea è che anche il personale fosse del tutto impreparato a un evento del genere. C’era chi correva da una parte, chi dall’altra – continua Carla – nel tentativo di raggiungere le scialuppe». Una volta a terra, tutti sono stati rifocillati, a tutti è stato garantito un posto dove dormire: «E ieri stamattina ce ne siamo tornati a Roma sull’auto dei miei genitori, che hanno già dato mandato al legale di famiglia di chiedere il risarcimento dei danni alla Costa Crociere. Una cosa è certa – conclude la sposina –  poteva essere una strage. Credo proprio che prima di rimettere piede su una nave dovrà passare un bel pezzo...».I vecchi sposi: due anziani estratti da un oblò«I miei uomini – racconta il tenente colonnello Italo Spalvieri, comandante del Reparto Operativo Aeronavale di Livorno della Guardia di Finanza – hanno visto la nave inclinata e due volti disperati dietro un oblò che era all’altezza della linea di galleggiamento. Calato in mare un piccolo gommone, si sono avvicinati e hanno impugnato un’accetta, sferrando una serie di colpi contro l’oblò, fino a romperlo completamente. Poi hanno afferrato i due anziani passeggeri e a bordo del piccolo gommone li hanno portati all’isola del Giglio. Quando, dopo alcuni minuti, i finanzieri sono tornati al Concordia, sottobordo, per soccorrere altre persone – conclude l’ufficiale – la nave si era piegata ulteriormente e l’area dell’oblò divelto era ormai sott’acqua». La Guardacoste Abruzzi della Guardia di Finanza è stata la prima unità a raggiungere il luogo del naufragio: alle operazioni di soccorso la Guardia di Finanza ha partecipato, oltre che con il Guardacoste Abruzzi, con altri cinque mezzi navali, arrivati da Livorno e da Civitavecchia. Hanno anche operato in zona due elicotteri delle Fiamme Gialle.Lo studente: quattro disabili e una scialuppa«Ho aiutato quattro disabili, tra cui mia nonna, a prendere posto sulla scialuppa di salvataggio». È il racconto di Omar Brolli, studente di Misano Adriatico, in provincia di Rimini, uno dei naufraghi della Costa Concordia, giunto nel pomeriggio a Savona. «Sono stati momenti drammatici – ha raccontato – ci dicevano di stare fermi e invece i dipendenti già indossavano i giubbotti di salvataggio. Informazioni lacunose e poca assistenza. Alla fine ognuno ha agito come ha potuto. Insieme ad altri ho aiutato a prendere posto sulla scialuppa di salvataggio quattro persone che non erano in grado di muoversi. Una era mia nonna. Non è stato facile, era terrorizzata, così come gli altri».Il cappellano: «Un ufficiale di coperta si è tuffato salvando tre persone. Ma altri non li ho visti più»ono due le umanità, imbarcate sulle navi da crociera: quella visibile e chiassosa dei turisti, e quella che nessuno vede o sente, un mondo sotterraneo che vive e lavora sotto coperta. È di loro, dell’equipaggio, che il cappellano di bordo si occupa durante i lunghi mesi che passano lontani dalle famiglie, senza mai toccare terra se non per chiedere qualche ora di ospitalità alle varie Stella Maris, dove sacerdoti e volontari danno loro un computer e un telefono per sentire la famiglia. Sono indiani, cinesi, polacchi, ucraini, arabi, africani. Peruviani come l’unico morto accertato tra loro... Molti non sono cristiani, ma è al cappellano che affidano nostalgie, problemi, tutti i beni materiali. «Ho qui le chiavi ma non posso raggiungere la cassaforte. Dentro ho tutto ciò cui tengono di più», raccontava ieri, commosso, don Raffaele Malena, l’ultimo a lasciare l’isola dopo che tutti, turisti e marinai, erano in salvo. Piccoli problemi, certo, rispetto alla «angoscia per decine di dispersi»: a sera negli occhi del cappellano c’erano ancora le immagini del panico ma anche tanti atti di generosità. «La gente si buttava in mare - raccontava -, un ufficiale di coperta si è tuffato e ne ha salvati tre. Anche l’hotel director della nave, Manrico Giampedroni, si faceva in mille, soccorreva tutti, ma improvvisamente nessuno lo ha più visto». Quanto alla quarantina di dispersi, «l’unica speranza è che non risultino presenti perché nel via vai degli elicotteri sono stati portati in salvo...», un’ipotesi detta con il pianto in gola, perché se si trattasse di turisti stranieri già tornati a casa, in Francia o Germania, sarebbe probabile, molto meno se a mancare all’appello fossero gli uomini dell’equipaggio, che una casa non l’hanno. «Prima di imbarcarmi, qualche anno fa ho partecipato alle "valutazioni di crisi" con simulazioni di incidenti – racconta un altro cappellano –, e in un caso come questo si calcolava un 8% di vittime, ovvero 360. Già tre sono troppi, preghiamo perché non siano di più». Lucia Bellaspiga
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