mercoledì 21 febbraio 2018
La mattina del 5 maggio l’alto magistrato viene crivellato di colpi alla Ziza insieme all’agente Lo Russo. In città prevale l’omertà
Palermo, 8 maggio 1971: tre giorni dopo il delitto gli inquirenti incontrano la stampa (Ansa)

Palermo, 8 maggio 1971: tre giorni dopo il delitto gli inquirenti incontrano la stampa (Ansa)

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La mattina del 5 maggio 1971 il procuratore capo di Palermo, Pietro Scaglione, sta tornando dal cimitero dove è andato a pregare sulla tomba della moglie, morta quattro anni prima. Alla guida della 1500 c’è l’agente Antonino Lo Russo. Che cosa accade esattamente in via Cipressi, quartiere Ziza, nessuno lo vorrà dire. Scaglione e Lo Russo muoiono ammazzati, crivellati di colpi. È stata la mafia? Certamente. Ma allora, nella Palermo (e nell’Italia) del 1971, non è così semplice...

«Agguato a Palermo. Alto magistrato ucciso» è il titolo di Avvenire del 6 maggio. E subito, nella cronaca non firmata, si denuncia il clima di omertà, figlio di paura, terrore o connivenza: «Le prime difficoltà sorgono al momento di stabilire esattamente l’accaduto. Sembra impossibile, ha affermato uno dei funzionari che partecipano all’inchiesta, che non si riesca a trovare un solo testimone in grado di ricostruire il duplice delitto, probabilmente avvenuto sotto gli occhi di decine di persone».

Chi era Scaglione? Giunto a 65 anni, stava per trasferirsi a Lecce. La sua carriera palermitana era ormai chiusa. E allora? Gianni Flamini su Avvenire scuote il capo: «Forse la cosa più inutile è quella di chiedersi perché hanno ammazzato il procuratore Scaglione. Se c’è una cosa evidente, come il suo sangue sulla strada, è che la mafia temeva si lasciasse andare a raccontare storie non gradite (...). Del resto, mafia vuol dire questo: alte protezioni, compromesso politico, spartizione del potere, morte dello Stato». Parole forti, mentre sul morto scorre il solito fango: Scaglione, che aveva inquisito anche Vito Ciancimino, Salvo Lima e altri politici, era stato accusato di aver favorito la fuga del boss Luciano Leggio, meglio noto come Liggio per un banale errore di trascrizione. E Liggio è «un simbolo». Flamini, in partenza per la Sicilia, spiega: «Meno di due anni fa a Catanzaro, di questi simboli ne processarono 113. Li assolsero tutti. Da allora, tredici sono già finiti sottoterra, e non per morte naturale, altri due nessuno sa dove siano».

Il giornalista cita il «triangolo del Sasso in bocca, dal romanzo di Michele Pantaleone: «Carabinieri e polizia che arrestano, magistratura che assolve, mafia che ammazza». Il giorno dopo, da Palermo, Flamini annota: «Il dolore è inutile alla giustizia, far giustizia è più difficile che piangere».

Ancora più crudo, se possibile, l’editoriale del direttore Angelo Narducci («La vera domanda»): «Purtroppo, la mafia non è solo un’accolita di piccoli delinquenti: vuol dire speculazione edilizia, speculazione sull’acqua, speculazione sul commercio, sulle banche, su tutti i settori di interesse pubblico. Vuol dire, perciò, soprattutto collusioni, pesanti collusioni politiche, in virtù delle quali oscuri proconsoli sono diventati importanti personaggi, con un seguito elettorale che tanto è più largo più ha dietro di sé una storia di sangue e di soprusi». Ed ecco la domanda vera: «Fino a quali livelli è arrivata la mafia? Davanti a quali porte si è dovuta fermare la Commissione antimafia? Perché i documenti "spietati e senza riserve" che erano stati promessi a suo tempo non sono ancora di dominio pubblico? Fino a qual punto la mafia ha inquinato lo Stato?». Mancano solo i nomi e i cognomi...

E se pensate che Avvenire stia esagerando, ecco fatali le esequie. Gianni Flamini annota sul taccuino sette interventi: Bellavista (presidente dell’Ordine degli avvocati), Lauro (procuratore aggiunto di Palermo), Montaldo (presidente di sezione della Corte d’Appello), Marchello (sindaco di Palermo), Pennacchini (sottosegretario alla Giustizia), Guarnera (procuratore generale della Cassazione) e Piraino Leto (presidente del Tribunale di Palermo). In due ore, mai viene pronunciata la parola mafia. Mai. Alcune perle: «La nostra è una società pervertita e ubriacata dalla materia, bisogna restaurare l’ordine etico» (il sindaco). «Questo misfatto è l’espressione tipica dell’anarchismo sociale del nostro Paese» (il sottosegretario). Commenta Flamini, più affranto che indignato: «Una parata di discorsi più figlia dei mali isolani che della realtà». Il titolo di Avvenire non nasconde nulla: «Solenni funerali per Scaglione ma... Nessuno ha parlato di mafia».

Bisognerà attendere il 1984 e le rivelazioni di Tommaso Buscetta al giudice Giovanni Falcone: «Scaglione era un magistrato integerrimo e spietato persecutore della mafia». Il suo omicidio sarebbe stato organizzato ed eseguito dallo stesso Liggio con il suo vice, tal Salvatore Riina. Ma nel 1991 chi indagava dovette concludere che non ci fosse nessun convincente elemento di accusa nei loro confronti. Falcone scriverà che l’omicidio di Scaglione «ebbe lo scopo di dimostrare a tutti che Cosa nostra non soltanto non era stata intimidita dalla repressione giudiziaria, ma era sempre pronta a colpire chiunque ostacolasse il suo cammino».

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