mercoledì 27 settembre 2023
Marco Dominietto, amministratore delegato di Gate to Brain, anticipa i temi del Forum del 3 ottobre organizzato in collaborazione con l'Ufficio Cei di Pastorale della salute
«Vi spiego come l'intelligenza artificiale cambierà la vita dei pazienti»

--

COMMENTA E CONDIVIDI

Da alcuni mesi, Food Bank in Oncology e l’Ufficio Nazionale per la Pastorale della Salute della Conferenza Episcopale Italiana stanno lavorando sull’alimentazione del malato di cancro, una frontiera terapeutica promettente ma molto sofisticata, in cui l’intelligenza artificiale può fare la differenza. Per questo, il 3 ottobre Matti Apro (Clinique de Genolier, Ginevra), Matteo Salgarello (IRCCS Sacro Cuore Don Calabria di Negrar) e Marco Dominietto CEO Gate to Brain SA si confronteranno con don Massimo Angelelli, che dirige l’ufficio Cei, su come si possa indirizzare lo stile di vita durante e dopo la malattia oncologica proprio sfruttando l’IA (il convegno si potrà seguire in streaming qui: https://www.youtube.com/@CeiSalute). Il problema è che c’è intelligenza artificiale e intelligenza artificiale. C’è quella delle proposte commerciali, che arrivano a spacciare per IA un normalissimo software di ricerca, e quella delle conferenze pensose sul computer quantico e senziente, che annienterà l’umanità. Chiediamo al Ceo di Gate to Brain, società svizzera di applicazione dell’intelligenza artificiale all’industria biomedicale e relatore al convegno “88 minuti per la ricerca”, di fare chiarezza.

L’intelligenza artificiale è davvero uno strumento magico per pochi eletti che governano il mondo?

Sull’argomento si legge di tutto – risponde Dominietto –. Chiariamo che l’IA è uno strumento matematico, non è alla portata di tutti e spesso non c’entra nulla con l’IA di cui si parla. Storicamente, nasce negli anni ’50 e si diffonde quando i processori di calcolo diventano più potenti e meno costosi: solo allora si riesce a istruire le macchine, attraverso la scrittura di algoritmi, a mimare il processo di apprendimento dell’uomo.

Semplifichiamo…

L’algoritmo è un insieme di formule che crea un processo o un insieme di processi concatenati. Nel caso dell’IA si mimano i processi con cui il nostro cervello apprende. Ad esempio, quando un bimbo riceve in regalo una palla la guarda, cerca di capire se rotola, di che colore sia e se sia molle o dura. Nel far questo estrae delle caratteristiche dell’oggetto che gli ricordano cose imparate prima di ricevere quella palla. Passiamo a una forma di IA che tutti conoscono: il riconoscimento facciale. La macchina immagazzina una enorme mole di caratteristiche dei volti, legate a colori e misure, movimenti, ecc. Quando le si sottopone un volto va nella propria memoria e lo “riconosce” escludendo i volti diversi. Non fa nulla di diverso da ciò per cui è stata programmata e questo risponde al dubbio che l’IA possa sfuggire di mano: quella attuale non va oltre il codice inserito dal programmatore.

L’intelligenza artificiale si “scrive” come un normale programma informatico?

Il linguaggio è lo stesso di altri programmi, ma cambia il modello. Il programma di IA è strutturato in modo che impara cosa sta facendo. Fa collegamenti. Inizia estraendo le caratteristiche, poi le seleziona e le confronta con ciò che ha in memoria, infine fa la detection: comprende e classifica nuovamente. Il processo si chiama training: se lo supera prende un punteggio positivo e impara che è “giusto”, diversamente non commetterà più lo stesso errore. L’uomo, invece, può sbagliare e può anche decidere di sbagliare.

Quella del futuro riuscirà a superare questi limiti?

Ci sono già algoritmi che insegnano all’IA a scrivere algoritmi, ma non sono in grado di utilizzare le emozioni e quindi sono ancora un passo indietro, rispetto all’uomo: vedo una palla, la riconosco sulla base dei ricordi, ma io ricordo anche l’amico con cui giocavo a palla e lo vado a cercare per giocare di nuovo, assimilando altre emozioni. Questo la macchina non sa farlo.

Eppure si dice che IA impari…

Facciamo un passo indietro. Google è diventato efficiente imparando , né più né meno quello che ci chiedevano di fare a scuola. Ma è rimasto ancorato all’apprendimento mnemonico. Il salto è quello di creare collegamenti tra le informazioni per crearne altre, come sta facendo ChatGPT. Per fare questo salto bisogna arrivare al natural large process e al large natural process, con cui il computer capisce e cerca di minimizzare gli errori su quantità di informazioni molto complesse e collegate tra loro. Mi hanno regalato una palla rossa e poi me ne regalano una verde: dico che è una palla perché ho verificato che la caratteristica difforme non è di prioritaria importanza nell’identificare l’oggetto, è semplicemente una variabile. Attribuire valori a queste variabili, però, è ancora un processo matematico. Consapevole ma non emotivo, non libero. Insomma, chiamiamo intelligenza (artificiale) ciò che più correttamente è “solo” una forma sofisticata di apprendimento, che però è rapidissimo e in ciò consistono le sue grandi potenzialità.

Ad esempio in medicina?

Ad esempio in medicina, ma con una grossa differenza rispetto ad altri campi. Ogni IA non è infallibile, c’è sempre un margine d’errore. ChatGPT fa un sacco di errori, il punto è che nessuno è in grado di verificarlo. Quando si parla di app mediche, non si può accettare l’errore, perché fa la differenza tra la vita e la morte. Ecco perché l’applicazione dell’IA in questo campo è più sofisticata.

Come applicate l’IA al settore medico?

La base di partenza è quella classica. Prendiamo una popolazione, acquisiamo dati biologici e sul comportamento di queste persone e sulle conseguenze in termini di salute o patologia e quando si presenta un nuovo caso l’applicazione è in grado di dire quale rischio corra di contrarre una malattia oppure che comportamento debba adottare per prevenirlo. Meglio ancora, invece di lavorare su tutta la popolazione lavoriamo su gruppi, ad esempio i malati oncologici, e censiamo tutte le variabili – alimentazione, ambiente, attività fisica… - del passato e del presente in modo tale che, cambiando una variabile, ad esempio quando il malato non può più fare attività fisica, l’IA ci dice in che modo modificare le altre per ottenere una certa risposta dell’organismo che prima era favorita dalla variabile che è venuta a mancare.

L’IA può sostituire il medico?

Un medico molto esperto sa dire come modificare l’alimentazione quando non puoi più fare sport perché ti hanno operato. Lo dice perché negli anni lo ha appreso. L’IA lo apprende più in fretta. Lo scopo è comunque quella di fornire al medico un supporto al suo processo decisionale, non di sostituirlo.

Questa capacità di apprendimento è alla portata di tutte le tasche?

Dipende da che tipo di calcoli vogliamo che faccia la macchina. Oggi i costi sono crollati. L’IA non è per pochi perché il vero business è rappresentato dal possesso e dalla gestione dei big data. Chi immagazzina i dati che servono all’IA di funzionare decide tutto, perché li può vendere. Un potere che gli diamo noi ogni volta che accettiamo “tutti i cookies”. In sanità siamo più seri, perché esiste il modulo di consenso informato che non permette di vendere i dati dei pazienti.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: