mercoledì 6 febbraio 2019
Nel campo di Moria migliaia di persone aspettano di entrare da rifugiati nel Vecchio continente. Si vive al gelo in baracche e container, ore di fila per un pasto. Ong e medici: situazione al limite
Migliaia di salvagenti ammassati nella discarica locale a Lesbo, a due passi dal mare / Ghirardelli

Migliaia di salvagenti ammassati nella discarica locale a Lesbo, a due passi dal mare / Ghirardelli

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Sin dal 2015 tappa obbligata soprattutto per siriani, afghani e iracheni diretti verso il Nord Europa lungo la rotta balcanica, Lesbo e le altre isole dell’Egeo restano ancora oggi fortemente sollecitate dall’alto numero di richiedenti asilo bloccati dopo l’accordo tra Ue e Turchia del marzo 2016. Secondo l’Alto commissariato Onu per i rifugiati, nel solo mese di gennaio circa 1.640 persone, principalmente afghani, hanno raggiunto la Grecia via mare. Sono 547 quelli che sono approdati a Lesbo. Qui sorge l’hotspot di Moria, uno dei centri del sistema europeo per l’identificazione dei migranti. Allestito in una ex struttura militare, il campo dispone di 3.100 posti ma ospita cinquemila persone (a settembre novemila). È gestito dal governo greco con l’aiuto dell’esercito, ma molti servizi sono delegati a Ong spesso al collasso. All’interno è presente l’agenzia europea Easo, ma le domande d’asilo (per le quali gli appuntamenti vengono fissati per il 2020...) sono gestite direttamente dalla Grecia.

Nella recinzione metallica attorno al campo di Moria si aprono buchi abbastanza larghi da passarci attraverso, senza restare impigliati. Sopra corre il filo spinato, ma è precauzione inutile perché chi vive all’interno si mescola liberamente con chi è accampato fuori, nell’uliveto. Ai due ingressi ufficiali vengono fermati solo occidentali e giornalisti, che non entrano senza autorizzazione. È già buio quando ci infiliamo in uno squarcio della recinzione: oltre la rete, le strade del campo illuminate dai fari sono percorse da rivoli di acqua piovana che bagna container, baracche, tende piccole e grandi.

All’esterno, piantato nel terreno molle di pioggia, c’è l’accampamento dell’uliveto che di notte quasi scompare, se non fosse per qualche falò. Sohrab e sua moglie Fatima, giovanissimi afghani, ci indicano il loro rifugio: dietro un telone, si apre una stanzetta di tre metri per due, assi di legno, pareti di cartone rivestite con cura di coperte termiche. Fatima scalda l’acqua per il tè con un bollitore, ma prima stacca da una presa volante la stufetta che manda un debole alito di calore. È al quarto mese di gravidanza e per questo la febbre alta e i dolori al ventre delle ultime ore l’hanno gettata nel panico. In lacrime ha raggiunto l’ospedale di Mitilene, il tempo di una visita ed è stata subito dimessa: l’accoglienza al Pronto Soccorso si è rivelata più gelida del vento che soffia nel campo. La vita in questo hotspot, il centro europeo di identificazione per migranti, è durissima. «Per capire cosa sia Moria, guarda dove dormono i bambini e le donne, anche quelle rimandate qui dall’ospedale quattro giorni dopo il parto» spiega Abdul, coordinatore dei medici volontari di Kitrinos Healthcare, uno dei quattro operatori sanitari del campo. «Immagina di dormire in una tenda battuta dal vento mentre cerchi di tenere al caldo tuo figlio, ma poi non ce la fai, perché fa troppo freddo, con temperature sotto zero».

I tempi di attesa per la richiesta di asilo variano da pochi mesi fino a un anno e oltre. A Lesbo ora ci sono 7mila migranti, contando anche l’altro campo di Kara Tepe. Solo a Moria sono 5mila, malgrado i posti siano 3.100. «Offriamo assistenza sanitaria di base, per malattie croniche e problemi psicologici, a volte psichiatrici. Alcuni pazienti provengono da fronti di guerra: un ragazzo ci ha raccontato del giorno in cui, di ritorno da scuola, non ha trovato più nessuno della sua famiglia, non c’era più nemmeno la casa. Tutti qui cercano di fare del loro meglio, ma non basta, abbiamo bisogno di supporto. I greci almeno tengono aperti i confini. Potrebbero bloccare le barche in mare come fanno altri Paesi, come da voi in Italia» conclude Abdul. «Com’è possibile che, in una struttura ufficiale europea, il peso delle cure sia tutto a carico di dottori volontari che restano nel campo per turni di due o tre settimane? È responsabilità delle autorità occuparsi di salute» dice amara Caroline Willemen, coordinatrice di Medici senza Frontiere che qui ha due cliniche all’esterno del campo: «Ne avevamo una all’interno, ma nel 2016 dopo l’intesa tra Turchia e Ue l’abbiamo chiusa perché non eravamo d’accordo, non volevamo essere complici: prima Moria era un campo di transito, mentre con l’intesa Ue le persone non sono più autorizzate a lasciare l’isola». Oltre a una clinica pediatrica, ce n’è una per malattie mentali: «Vediamo pazienti con stress post traumatico, tendenze suicide e sintomi psicotici che non permettono di badare a se stessi, ad esempio, di affrontare la coda per il cibo». A Moria i pasti si ritirano aspettando per ore, in lunghe file. L’area di distribuzione è spaventosa: un sistema di gabbie all’aperto conduce a una parete d’acciaio dove, da un’apertura stretta, fuoriescono le vaschette dei pasti precotti. «Molte docce non hanno acqua calda. La scorsa settimana una paziente con un bambino piccolo ci ha confidato di averlo lavato solo una volta da inizio anno. 'Non sono sicura di riuscire a scaldarlo di nuovo, dopo il bagno', ha detto.

E poi, container senza chiavi, chiusure inappropriate nelle toilette dove spesso manca la luce: molti hanno paura di andarci di notte» conclude la coordinatrice. «Se devo raggiungere il bagno quando è buio, sveglio qualcuno della famiglia per farmi accompagnare » racconta Faezeh, afghana di 20 anni. Studentessa di sociologia in Iran, da quattro mesi è a Moria dove le è capitato di essere importunata da un uomo. Lo racconta seria, ma si illumina, un minuto dopo, parlando dell’attività che svolge per l’Ong Refugee4Refugees: «Quando vengo qui al negozio per la distribuzione gratuita degli abiti mi sento bene, lascio al campo le cose negative. Mi occupo di mostrare i vestiti alle famiglie di rifugiati, cerco con loro taglie e colori». Tra i volontari c’è anche Mouctar, guineiano. «Qui allo shopgli abiti non vengono distribuiti e basta, ma scelti con calma dalle persone».

Incontriamo il fondatore dell’associazione, il siriano Omar Alshakal. «A volte, quando vedo lavorare gli uomini del governo e delle grandi organizzazioni non governative, mi chiedo se pensino che i rifugiati siano animali o peggio. I rifugiati vanno coinvolti nella gestione degli aiuti, capiscono la situazione perché ci vivono dentro. Chi gestisce Moria (il governo e l’esercito greco) avrebbe il potere di cambiare la situazione, di spingere l’Europa a muoversi, ma non lo fa. Anzi l’anno scorso prima di un’ispezione Ue il campo è stato ripulito per fare bella figura».

Gli sbarchi avvengono sulla costa settentrionale, ma anche a sud, di fronte all'aeroporto, dove la Turchia sembra a un passo. Il giorno del nostro rientro in Italia qualcuno ha toccato terra proprio lì, abbandonando sulla riva un giubbotto di salvataggio. Finirà tra le migliaia di altri salvagenti ammassati nella discarica locale, coperta delle macchie arancioni dei tessuti impermeabili stracciati o scoloriti, marea solida nel silenzio di una collina. Visti da vicino, uno a uno, evocano scene di naufragi, di onde che spingono, di corpi che si stringono gli uni agli altri sui gommoni.

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