venerdì 27 giugno 2014
Abusi e violenze estreme avvengono nei Paesi d’origine. In Italia non ancora introdotto il reato nel Codice penale.
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Un dramma nascosto accompagna un rifugiato su tre accolto in Italia. Sono le torture e le violenze estreme scolpite nel corpo e nella psiche. Su circa 15.000 persone cui l’Italia ha accettato la domanda di protezione nel 2013, si stima che almeno 5.000 abbiano subito gravi abusi durante il viaggio dalle gang di trafficanti o dai persecutori nel Paese di origine. Lo testimoniano gli africani passati dall’inferno libico o i siriani. E lo confermano le statistiche diramate ieri in un convegno organizzato dal Consiglio italiano per i rifugiati a Roma per la giornata internazionale per le vittime di tortura, secondo le quali il 30% dei rifugiati ha provato esperienze di tortura e violenza estrema. Sono forse di più, come ha ricordato Romano Prodi: «Distinguere un profugo da un migrante economico è sempre più difficile, in molte città e villaggi africani la gente ha solo l’alternativa tra morire di fame o migrare».Il Belpaese non ha ancora introdotto il reato di tortura nel Codice penale. Ieri il ministro degli Esteri Mogherini ha sollecitato al Parlamento l’approvazione definitiva del disegno di legge licenziato il 5 marzo dal Senato. Altra lacuna è la mancata riapertura di una rete nazionale all’avanguardia nella cura e riabilitazione dei torturati, il Nirast, eccellenza europea. Due anni e mezzo fa la Regione Lazio non rifinanziò l’ambulatorio dell’ospedale San Giovanni sostenuto da Cir e Acnur e diretto dallo psichiatra Massimo Germani. Dal 2002 era capofila del network di 10 ambulatori che ha avuto riconoscimenti nazionali e internazionali. Il centro romano ha assistito e offerto terapie a oltre 1.200 rifugiati da tutto il mondo con gravi patologie. La chiusura avvenne in barba alla direttiva europea sugli standard minimi di accoglienza dei richiedenti asilo, recepita dall’Italia e che raccomanda la tutela delle persone che hanno subito torture, stupri o forme gravi di violenza psicofisica.«I disturbi post-traumatici complessi – spiega Germani – presentano notevoli difficoltà diagnostiche, possono a volte non essere riconosciuti o scambiati per schizofrenia o psicosi croniche. In mancanza di una precoce diagnosi e di una terapia specifica tendono a peggiorare. Se non si interviene, i costi umani e sociali sono elevati». Perciò gli specialisti del Nirast a marzo hanno presentato a Copenaghen uno strumento innovativo per l’identificazione precoce delle vittime, l’Etsi. Ma l’ambulatorio romano resta chiuso.Tuttavia la Regione pare averci ripensato. Rodolfo Lena, presidente della commissione Politiche sociali e salute del Consiglio regionale ha definito «grave» la persistente chiusura parlando di «atto privo di qualsiasi motivazione sia dal punto di vista delle esigenze di budget, sia da quello sanitario. Il costo dell’ambulatorio è minimo, visto che il personale è in carico all’Azienda ospedaliera e i locali sono all’interno dell’ospedale Britannico».Restano le perplessità della burocrazia perché esistono altri centri ospedalieri per immigrati e rifugiati. «Ma – ribatte Germani – la necessità di un centro specialistico in un territorio vasto come Roma è testimoniata dal continuo incremento dell’afflusso. Negli ultimi anni era cresciuto, fino a raddoppiare nel 2011 rispetto al 2010, con un aumento di invii da altre strutture di casi gravi o ritenuti intrattabili». Resta da percorrere l’ultimo miglio per riaprire il centro dopo 30 mesi. Sarebbe una risposta importante a sofferenze in crescita, come gli sbarchi.
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