giovedì 17 marzo 2011
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Quando è nato lui, di anni l’Italia unita ne aveva poco più di cinquanta. I vecchi ricordavano il Risorgimen­to. I padri, di lì a poco sarebbero partiti per il fronte. E c’era anche il padre di Ersilio Tonini, fra i fan­ti al passaggio dei quali, il 24 mag­gio 1915, il Piave “mormorava”. È tutta un’altra Italia quella che e­merge lentamente conversando con il cardinale, che quest’anno nella sua Ravenna compirà 97 an­ni. Tonini è nato a Centovera di San Giorgio Piacentino, vicino a quel­lo che Guareschi chiamava “il grande fiume”, il 20 luglio 1914. Già la data di nascita ti mette sogge­zione. Quante cose quest’uomo anziano, fragile ha visto, ha vissu­to, che tu non sai. I suoi anni coin­cidono quasi con un secolo di sto­ria di questo Paese. L’Italia, pensi, nella sua memoria deve essere più concreta e carnale: non parole su un libro, ma facce, e destini. Emi­nenza, chiediamo, che cosa rappresenta per lei questo 17 marzo, nuova festa in un’Italia che sembra ancora incerta nel capirne il valore? «Rappresenta - rispon­de Tonini, parlando a­dagio - il diventare vero di un sogno: di ciò che è stato un sogno per ge­nerazioni di italiani. Og­gi noi non riusciamo nemmeno a immagina­re quanto sembrasse impossibile l’unità, do­po secoli di frammenta­zione e dominio stra­niero».Il sogno avvera­to di 150 anni fa e la fa­ticosa costruzione, poi, di una nazione. Il fante Cesare Tonini, capo­bifolco della più grande cascina di Centovera, e­ra un uomo pacato e mite. Tornò dal fronte con una promozione di cui quasi non fece parola. «Quel che capimmo noi figli era che ave­va fatto semplicemente il suo do­vere fino in fondo. “Patria”, era u­na parola che in casa nostra si pro­nunciava con intensità e rispetto. Non con l’accento che avrebbe poi sviluppato il fascismo, in cui si av­vertiva un sapore di volontà di do­minio, di aggressività; patria, era da noi una parola fiera, ma in pa­ce. E - prosegue Tonini - vorrei di­re che se ancora oggi in Italia ab­biamo una opinione pubblica li­bera, libera, libera (ripete tre volte l’aggettivo), non lo dobbiamo ai dotti o agli studiosi, ma a una sa­pienza della gente semplice, del popolo, delle famiglie. Io proven­go da quel mondo, io l’ho cono­sciuto».Un mondo attraversato dalle lotte politiche degli anni Ven­ti, e in Emilia dal vento di sperate rivoluzioni. «Ma i contadini delle mie parti avevano fatto la guerra, quella vera, nelle trincee, e ne era­no tornati ancora più concreti e più semplici. Mio padre mi diceva che era costata tanto, la vittoria; e che le smanie di rivoluzione erano solo fantasie. Aveva fatto solo la terza elementare, ma aveva una grande stima dell’istruzione. Mi di­ceva: “Verrà un giorno che anche i figli dei contadini studieranno e faranno la loro parte”. Era orgo­glioso della mia voglia di impara­re. La domenica pomeriggio mi prendeva in disparte, voleva esse­re lui a insegnarmi a leggere e a scrivere». Il 17 di marzo dunque per il cardinale è festa. Festa di “quella” Italia umile, concreta, be­nevola in cui è cresciuto. L’Italia di una limpida saggezza popolare, che le veniva dalla tradizione cri­stiana; che aveva come colonna la famiglia e gli affetti, custoditi e ve­nerati. «C’era forte - dice Tonini ­l’idea di dovere dare l’esempio ai figli, di mostrare loro un bene. A casa nostra una delle parole più ri­correnti era “sentimenti”: e stava a intendere l’affezione alla casa, ai figli, al lavoro, a ciò che è giusto. Però la si pronunciava in dialetto, “sent...umeent” e detta così aveva più significato, era proprio ciò che sentivamo nel cuore, l’amore al pa­dre, alla madre, alla nostra terra». Ascolti e cerchi di immaginare, di vedere “quella” Italia di cui Tonini è testimone. Ma, Eminenza, non puoi non domandare, l’Italia di cui lei parla, è certo che esista ancora? «Esiste ancora, anche se sembra quasi non avere voce. Esiste anco­ra il bene, e il nostro antico buon senso. I figli, nella grande maggio­ranza, amano ancora il padre e la madre, e questa è la prima cosa, sono le fondamenta. Lo so, si sen­te dai giornali un gran parlar ma­le dell’Italia; ma se ci fa caso a par­lare male sono quasi sempre i sa­pienti, i dotti, che si sentono in do­vere di esprimere solo critiche. È sempre stato così, mi creda. Ma, sotto a queste parole, c’è ancora un’altra Italia, più semplice, di cui si può essere orgogliosi. Un Paese, anche, da tenere unito, nonostan­te tutte le sue differenze; da salva­guardare dalle spinte dei locali­smi». La fede, quanto peso ha avuto nel costruire l’Italia che lei ama? «La fede cristiana nell’Italia da cui io vengo era il respiro del popolo, e u­na grande ricchezza». (Lontane fe­ste di paese attorno alle prime Co­munioni dei bambini rivivono nei ricordi di Tonini; il parroco, la pro­cessione, la gente con i vestiti del­la domenica; anche questa, profonda Italia, da cui provenia­mo). Poi, il cardinale racconta di quando, bambino, serviva da chie­richetto, e un contadino fiera­mente ateo lo avvicinò: «Ragazzo, vorrai mica farti prete? Guarda che “quelli” lavorano solo per mante­nere la loro bottega...». Sorride al ricordo delle grandi passioni del­la sua terra, per cui un vecchio a­teo e un chierichetto di sei anni di­scutevano su Dio. Racconta ancora che in quarta e­lementare, per andare a scuola, fa­ceva ogni mattina a piedi cinque chilometri; e in quinta di più, otto chilometri al giorno, così che suo padre gli regalò una bicicletta. Ti domandi di nuovo: è ancora, que­sto, lo stesso Paese? I nostri figli, che vanno a scuola con la cuffia dell’Ipod sulle orecchie, non fa­rebbero mai otto chilometri a pie­di, al mattino, per una scuola che a loro sembra più un onere che un onore. Certo, dice Tonini, «molti ragazzi non sanno. Non sanno quasi niente della nostra storia, di cosa hanno alle spalle». I figli non sanno; e, aggiunge il cardinale, «in­vece è fondamentale mantenere la memoria. Sapere da dove si viene, e quanto è costato, arrivarci. È im­portante custodire i ricordi, per vo­lere bene al Paese in cui si vive. È un compito, anzi, la memoria, di­rei anche istituzionale e politico. È un dovere, tramandare la storia, e non solo nei libri: trovare il modo di renderla viva, perché i figli ca­piscano ». E viva è la storia nei ricordi di To­nini. Anche se non rispettano l’or­dine cronologico; e emergono li­beri, vicini o molto lontani. L’in­contro, a Roma, con il nuovo Papa da poco arrivato dalla Polonia. «E­ra commosso da Roma, dalla sua bellezza; si vedeva che scopriva di essere arrivato al centro del mon­do, alla origine dell’Occidente. Co­sì come io da giovane, studente al­la Lateranense, mi emozionavo sui testi di diritto romano; la nostra ci­viltà, pensavo, quanto deve all’Ita­lia, e che straordinaria fucina è sta­to questo Paese nei secoli per l’ar­te e la cultura. E, com’è bello: pen­so alla maestà delle Alpi, alla straordinaria diversità dei paesag­gi. Che ricchezza: un Paese bene­detto. Un Paese segnato dal catto­licesimo, e in cui, dopo tanti viag­gi in luoghi lontani, ho sempre ri­conosciuto come l’impronta di u­na Chiesa più “madre” che altrove. Di modo che, tornando a casa, mi accorgevo di una serenità di giu­dizio, di una benevolenza verso il prossimo, che non si trova ovun­que; e per cui io sono contento e anche orgoglioso, di essere nato in Italia». Ma ancora premono, si affollano indisciplinati i ricordi: «Io non di­menticherò mai la speranza e l’attesa di quei giorni del ’45, in cui sapevamo che gli Al­leati stavano risalendo l’Italia, che venivano a liberarci. L’anniver­sario di oggi mi fa venire in mente quella nostra grande speran­za. Vorrei solo che anche oggi si avesse più speranza, e fi­ducia, e meno paura. La no­stra storia va a­vanti ». E da co­me lo dice, sembra che parli di un’onda larga, generosa; del fluire ampio e inesauribile del suo Po.
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