sabato 31 luglio 2010
Carlo Dionedi è sopravvissuto alla strage di Bologna: nell’abisso del male è ripartita la vita. Lo scoppio, le invocazioni d’aiuto dei feriti, i soccorsi, l’orrore, le terribili ustioni curate all’ospedale: il racconto di un uomo che da allora è profondamente cambiato.
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Il 2 agosto 1980, alle 10.25, Carlo Dionedi alla stazione di Bologna non avrebbe dovuto esserci. È bastato un banale ritardo del treno su cui viaggiava per ritrovarsi catapultato in uno dei fatti più sconvolgenti della nostra storia. «Come se la bomba aspettasse me», ripete convinto trent’anni dopo, unico, tra coloro che sedevano a meno di tre metri dal punto dov’è esploso l’ordigno, a poterlo raccontare, vivo, col «solo» neo di non sentirci più dall’orecchio destro, perché la violenza dello scoppio gli ha perforato il timpano.Qualcosa di davvero inspiegabile è accaduto quell’afosa mattina d’estate ad un universitario piacentino di 21 anni che aveva fretta di tornare a casa per scalare le Dolomiti con gli amici del Cai. Figlio unico di genitori quarantenni, nato tra due gravidanze abortite, Carlo è cresciuto sotto la classica campana di vetro. È con l’adolescenza – e l’approdo nel clima razionalista e politicizzato del liceo classico dopo un’educazione dai Fratelli delle Scuole Cristiane – che affiorano i segnali di una crisi alla quale tenta di dare risposta buttandosi nella lettura di Freud e Jung. «Nonostante l’apparente spensieratezza, ero lacerato dai dubbi, terrorizzato al pensiero della morte – ricorda. – Se Dio è Amore come mi avevano insegnato, perché tanto dolore innocente? Perché i "buoni" sono sconfitti e i "cattivi" se la spassano?». Il clima di violenza degli anni ’70 accresce la sua angoscia. «Avrei voluto guardare fisso negli occhi uno di quei terroristi e gridargli: perché? Cos’è che ti spinge a dilaniare persone innocenti e inermi, persone che nemmeno conosci?».Un po’ perché c’erano gli amici, un po’ per curiosità, «molto per disperazione» ammette oggi, inizia a frequentare il Cammino neocatecumenale, da poco avviato in parrocchia. «Io ero scettico, però al tempo stesso desideravo dei segni, dei fatti in cui poter dire: Dio c’è ed è vero che cammina con noi. Ebbene, il Signore mi ha accontentato, nella maniera più dura e sconcertante, la mattina del 2 agosto 1980 alle 10.25».Il 30 luglio, Carlo è a Taranto al matrimonio di una cugina. Gli zii vorrebbero che restasse, gli amici lo attendono per «attaccare» le Dolomiti. Posticipa la partenza al 1° agosto. Alle 21 sale sul treno per Bologna; arrivo previsto ore 8.30. Per le 10.30 sarebbe stato a Piacenza. Ma il convoglio ritarda, non tocca il capoluogo emiliano prima delle 10. «La coincidenza partiva dallo stesso binario. Avrei potuto aspettare lì. Ma dovevo avvisare i miei. Sono andato nell’atrio a telefonare. L’orologio segnava le 10.15. Avevo mezz’ora. Ho comprato un giornale e sono andato in sala d’aspetto. Era affollatissima. Un signore si alza e lascia libera una poltroncina. Che fortuna. Mi siedo, apro il giornale». Ed è subito il finimondo. «Non ho avvertito lo scoppio, ma una sorta di scarica elettrica, mi sono sentito afferrare per i capelli e sbattere qua e là. Ho pensato ai miei genitori. Il Signore non può farmi morire adesso – mi son detto – sa che non ce la farebbero, non potrebbero sopportare una croce così grande. Finito questo pensiero, tutto si è fermato».Carlo si ritrova sopra le macerie roventi. Sopra, non sotto. Come se qualcuno ve l’avesse poggiato. Vede i tetti dei treni, sprazzi di città. Non ha perso conoscenza. Non ha un taglio, non una frattura, non una scheggia in corpo. Tanto bruciore al viso, alle mani, alle braccia (la prognosi parla di ustioni di 2° e 3° grado). Intorno è solo polvere e grida strazianti, «le urla di chi è rimasto sotto, che mi hanno svegliato più volte la notte, che mi porto nel cuore». Si alza, tenta l’uscita. Quella verso il primo binario è bloccata. Si volta indietro, verso il piazzale. A metà tragitto, si imbatte in un relitto di essere umano, che sbuca dai detriti col busto. È un ragazzo francese: «A gauche», dice indicando la trave che gli blocca la gamba sinistra. Vorrebbe tirarlo su; le mani bruciano troppo. «Vado a cercare aiuto», risponde Carlo, nella sua lingua. «Che fine abbia fatto, non l’ho mai saputo». Sul piazzale, i soccorsi non sono ancora arrivati. «La gente mi viene incontro, attonita. Ho i capelli bruciati, la pelle a brandelli... Voglio un’ambulanza. Prego per tutto il tragitto».Durante le tre settimane di ricovero all’Ospedale Sant’Orsola, a tu per tu con la propria e l’altrui sofferenza, Carlo vive il suo calvario e la sua resurrezione. «Gesù ha vinto la morte, l’ha vinta anche per me», è la silenziosa litania che recita nelle notti insonni, quando la paura riaffiora, i sogni sono incubi, i lamenti dei vicini il sottofondo che spezza il silenzio. Il pensiero a poco a poco si fa convinzione. Asciuga le lacrime. Da pura idea, Gesù diventa persona. Si fa incontrare su quella croce di cui Carlo non aveva mai capito il senso.La parola miracolo l’hanno usata in tanti ascoltando la sua storia. A lui il termine non è mai piaciuto. Con gli anni, si è dovuto arrendere all’evidenza. «La prima volta che sono tornato nella sala d’aspetto ricostruita com’era prima dell’attentato, mi sono seduto sulla stessa poltroncina e mi sono voltato verso il cratere lasciato dalla bomba: ero a 2-3 metri di distanza, non di più». Chiunque si trovasse nel raggio di 4 metri e mezzo è morto.«Ogni volta che vado a Bologna, mi fermo per una preghiera davanti alla lapide con i nomi dei caduti e penso che ci sarebbe potuto essere il mio. Perché gli altri sono stati presi e io lasciato? Me lo sono chiesto a lungo. Quel che è certo, è che Dio non spara nel mucchio come fanno i terroristi: c’è una logica che Lui solo conosce». Carlo pronuncia queste parole con il pudore di chi si sente legato a doppio filo con le persone che il 2 agosto la vita l’hanno persa o l’hanno avuta irrimediabilmente segnata. La bomba ha stravolto anche a lui, ma diversamente. «Quando capisci che la vita ti è donata, non puoi che iniziare a prenderla sul serio e donarla a tua volta». Così si è laureato, è diventato insegnante, nel 1988 ha sposato Lorena, è papà di otto figli naturali e di uno in affido. Proprio lui, che passava da una ragazza all’altra. Che fuggiva le responsabilità. Che, in un mondo così marcio, pensava che ad avere bambini c’è proprio da essere pazzi…«Ma il vero miracolo per me – precisa – è aver sperimentato che, perfino in evento drammatico e profondamente ingiusto, dove la malvagità dell’uomo dispiega tutta la sua forza devastatrice, è possibile incontrare l’amore di Dio, rinnovare la fede e rafforzare la speranza. Vorrei che a ognuno fosse concessa la mia stessa esperienza, che si potesse riconciliare con la propria storia e vivere finalmente nella pace».
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