martedì 26 settembre 2023
Samaneh Nasiri durante il suo intervento all'Università degli Studi Internazionali di Roma

Samaneh Nasiri durante il suo intervento all'Università degli Studi Internazionali di Roma - Unint

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“Se sono libera in Italia, e non sono schiava dei talebani in Afghanistan, è solo grazie ai Corridoi umanitari e all’accoglienza da rifugiata ricevuta nel vostro paese”. Samaneh Nasiri è intervenuta oggi, 26 settembre, all’incontro che si è svolto all’Università degli Studi Internazionali di Roma – Unint, dal titolo “Accoglienza e supporto” e dedicato ai migranti e rifugiati, per i quali si è da poco celebrata la Giornata Mondiale voluta dall’Onu. È la prima volta che racconta la sua storia, e la sua è una testimonianza, di grande attualità visto il dibattito di questi giorni, oltre che toccante e piena di significato, a due anni dal ritorno al potere dei talebani e dall’istaurazione del loro regime di terrore.

Samaneh era nel mirino dei talebani perché studiava all’università americana che era stata fondata nel 2006 da suo zio Sharif Sayez, primo ministro dell’alta educazione dopo il primo governo talebano. “Era un istituto no profit, io ero il frutto di una temporanea democrazia e dei 20 anni di presenza americana: mi ero laureata in Business Administration perché volevo promuovere la società civile, dare uguali diritti a uomini e donne e creare opportunità di lavoro per entrambi, senza distinzione. Ma subito prima di tornare al potere, su un loro sito i talebani definirono la mia università un covo di lupi e di spie. Ero terrorizzata, sapevo di essere in pericolo di vita”. Quando gli americani organizzarono il loro precipitoso ritiro dall’Afghanistan, Samaneh tentò di espatriare una prima volta, avendo i documenti per farlo, ma era all’aeroporto il giorno in cui, mentre prendevano il potere, i talebani lo bombardarono per impedire agli aerei di partire. Avrebbe dovuto essere esattamente nel luogo dell’esplosione, si salvò per miracolo.

Rimase nascosta per molti mesi, se i talebani l’avessero scoperta l’avrebbero uccisa. Per molte volte, racconta, tentò, in maniera organizzata, una fuga dal paese, in aereo, in bus, con altri mezzi, una volta, su indicazione ricevuta, con un burka che la copriva interamente. Ogni volta, all’ultimo, le comunicavano che per problemi di sicurezza non era più possibile partire. “Ero disperata, piangevo, ero ormai senza speranza. Da bambina avevo spesso incubi dei talebani che tornavano al governo, mia mamma mi tranquillizzava, ma adesso erano diventati realtà. Io, una donna fino ad allora indipendente, ero prigioniera in casa, mi nascondevo vivendo al buio, disperata e depressa, la paura mi toglieva il fiato, la pace e il sonno. Tanti sforzi per fuggire, e sempre fallivano all’ultimo momento. Alla fine, dopo tanto tempo e quattro faticosi tentativi di fuga, mio fratello, che viveva in Italia, trovò una strada. E completamente vestita di nero, con un velo che mi copriva il volto, riuscii a imbarcarmi per il Pakistan. Rimasi lì sei mesi aspettando il visto italiano, e riuscii ad arrivare nel vostro paese grazie ai Corridoi umanitari. Mi è stata regalata una nuova vita. Sono piena di gratitudine per l’aiuto e l’assistenza ricevuta, e spero un giorno di poter ripagare tutto questo dono”.

“Le donne in Afghanistan sono forti e coraggiose – continua Samaneh - vorrebbero combattere contro la discriminazione e il governo dittatoriale dei talebani, ma sono disperate, non possono più andare a scuola o all’università, non possono andare in palestra o al parco. Non possono nemmeno andare dal parrucchiere o lavorare. La sola idea che hanno i talebani delle donne è quella di macchine per fare figli. Devono essere utilizzate solo per quello. Sono tutte prigioniere, prigioniere nelle loro case. Molte in pericolo di vita, come tutte le amiche che hanno studiato come me all’università americana o lavorato in organizzazioni che non piacciono ai talebani. In pochi giorni, con il loro arrivo al potere, è stato tutto distrutto. Tutto. È come se le donne afghane stessero ora bussando a ogni porta, ma nessuna si apre”. “Essere oggi donna in Afghanistan o in Iran” conclude Samaneh “è una miseria, e insieme una enorme sfida. Noi, donne che viviamo fuori dall’Afghanistan, siamo la loro voce. Per favore, ascoltatela!”.

E dei Corridoi umanitari che hanno permesso a Samaneh, come a molte migliaia di altri in questi anni, di arrivare in Italia o in altri paesi sicuri, ha parlato, durante l’incontro all’Università degli Studi Internazionali di Roma - Unint, anche l’onorevole Paolo Ciani, segretario della Commissione affari sociali della Camera. Dopo aver attentamente illustrato il cammino fatto in Italia dalle varie iniziative politiche e dalle leggi che hanno affrontato lungo gli anni la questione dei migranti e rifugiati, ha parlato dei Corridoi umanitari, che ha definito “l’iniziativa più significativa finora ideata a livello europeo, e nata nel nostro paese”, un programma di accoglienza che permette ai profughi provenienti da zone in emergenza umanitaria di avere una modalità di trasferimento e l’integrazione in un paese sicuro, in modo che persone in condizione di fragilità possono trovare rifugio stabile in modo legale.

“Uno dei drammi più terribili della nostra epoca” ha detto Ciani “è l’assuefarsi al dolore degli altri: oggi che posiamo vedere tutto quello che succede nel mondo proviamo attimi di commozione e poi li mettiamo da parte. Ma al di là delle divisioni politiche che ci sono sui metodi per affrontare il fenomeno migratorio, uno stato democratico come l’Italia deve poter trovare il modo di intervenire concretamente: non gli è concesso assuefarsi al dolore degli altri”.

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