mercoledì 21 aprile 2010
Il grido di aiuto lanciato da tre famiglie italiane è stato raccolto a Liegi da due specialisti di fama: «La nostra sfida per dare futuro ai malati in stato vegetativo»
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Pio Albergo Trivulzio di Milano, reparto Vassalli, la stanza con le tende arancioni, il via vai delle infermiere per il pranzo. Sta qui Luca, da 14 anni. «Assente», «apallico», «vegetativo», «senza speranza»: mamma Luciana e papà Guido hanno appuntato l’opinione di decine di specialisti, da quel 26 ottobre del 1996, quando il figlio è caduto dal motorino. Nessuna uguale all’altra. Sta qui Luca, e nella stanza arancione venerdì scorso è successo qualcosa di nuovo.Dal centro all’avanguardia di Liegi, Belgio, che negli ultimi mesi ha fatto spesso notizia sulle pagine dei giornali per le sue scoperte straordinarie sugli stati vegetativi e i pazienti affetti da lesioni cerebrali, due esperti sono arrivati per visitarlo. Li hanno chiamati i suoi genitori, insieme alle famiglie di Giuseppe e Valentina, anche loro apparentemente incoscienti e ricoverati nella struttura milanese. Tre famiglie accomunate da una speranza inossidabile, da una forza che lascia senza parole. E due scienziati che partono dal Belgio a titolo gratuito, senza chieder nulla in cambio: le famiglie pagheranno una visita specialistica generica all’ospedale di Liegi, se e quando l’ospedale lo riterrà opportuno e ne farà richiesta.Andrea Soddu e Olivia Gosseries – lui neuroscienziato (fra i nostri cervelli in "fuga"), lei neruopsicologa (ultraspecializzata, trentenne, alle spalle centinaia di pazienti vegetativi visitati) – entrano al Vassalli con una borsa e un plico di fogli. Tanto basta a effettuare il test previsto dalla Coma Recovery Scale, che è il metodo internazionale impiegato per stabilire le condizioni il più possibile precise dei pazienti come Luca. Ma che su Luca non è mai stato effettuato: «Lo hanno visto molti medici, ne abbiamo chiamati dall’Italia e dalla Svizzera – spiegano Luciana e Guido –, eppure è la prima volta che assistiamo a una visita del genere». Il professor Soddu spiega a Luca che per un paio d’ore dovrà sforzarsi a partecipare al test, mentre Olivia inizia a disporre accanto al letto gli oggetti utili alla visita: uno specchio, una spazzola, una tazza, un telo, una bottiglia di aceto e un vasetto di miele. La Coma Recovery Scale prevede che il paziente affetto dal lesione cerebrale venga stimolato nelle sue diverse aree sensoriali. Ciascun test deve essere ripetuto cinque volte. E la Scala andrebbe ripetuta costantemente (non la prima volta dopo 14 anni).Si comincia con la semplice osservazione: Olivia guarda Luca per cinque, sei minuti. Un tempo lunghissimo. E scrive, appunta ogni particolare su una cartella clinica dettagliatissima. Poi è la volta dell’udito: Olivia batte le mani, a destra e sinistra di Luca, di nuovo scrive. Via via, le altre prove: il miele sotto le narici, poi l’aceto, lo specchio davanti agli occhi, una pressione sulle unghie di mani e piedi per osservare reazioni al dolore, un telo posato e tolto all’improvviso dal volto. Le prove vengono ripetute, e ancora ripetute. Il test dura due ore e mezza. A Luca vengono fatte richieste, e lui risponde: sposta la testa, reagisce al dolore, borbotta. Soprattutto, quando gli viene domandato di muovere il dito se sua mamma si chiama Luciana, lo fa, mentre non lo muove quando gli si chiede se sua mamma si chiama Arianna, o Maria. Olivia scrive, e sorride: sono buone basi per riconoscere in Luca un paziente in stato di minima coscienza, e non vegetativo. Anche questa, una distinzione che i genitori del ragazzo non hanno mai sentito fare. «E cosa vuol dire esattamente? – chiede Luciana –. E ora cosa dobbiamo fare?». Il professor Soddu spiega che la cartella sarà analizzata dall’équipe belga in una tavola rotonda ad hoc, il referto verrà poi mandato a loro e al medico di Luca. E che forse si sarebbe potuto fare qualcosa, prima, che ci sono dei macchinari che possono dare ancora più risposte sulle sue condizioni («Anche se in Italia non vengono utilizzati su questi pazienti, ancora»), che ci sono già dei medicinali con cui si trattano i pazienti in stato di minima coscienza («Anche se in Italia non vengono impiegati, ancora»). Papà Guido si arrabbia.Al Pio Albergo Trivulzio, d’altra parte, per i pazienti come Luca si fa tutto il possibile. Sono stati riuniti in un unico reparto, anche se solo a partire dall’anno scorso, e sono arrivati nella struttura dopo la tradizionale permanenza nei centri riabilitativi, che secondo il percorso stabilito dalla nostra Sanità dovrebbero per primi effettuare delle diagnosi: «In linea teorica una volta ricoverati in una Rsa su questi pazienti ci dovrebbe già essere una risposta definitiva e qui dovrebbero essere solo assistiti – spiega il direttore medico Massimo Monti –. Ci accorgiamo invece che spesso arrivano qui in una situazione come "congelata", senza che su di essi sia stato compiuto un percorso vero di riabilitazione e terapia, che invece noi stiamo provando a stabilire, con dei risultati». Così nella struttura milanese le neuropsicologhe come Olivia hanno iniziato a effettuare test sui pazienti: c’è chi si occupa della fisioterapia, chi dell’osservazione dei pazienti, chi del rapporto costante con le famiglie. «L’arrivo dei medici di Liegi ci offre spunti utilissimi di confronto – spiega la responsabile del reparto, Paola De Vincenzo – soprattutto in questa fase, in cui siamo un po’ autodidatti. Questi protocolli andrebbero fatti studiare e applicare da tutti».Dopo Luca, è la volta del test su Giuseppe e Valentina. I risultati evidenziano uno stato vegetativo, in entrambi i casi il professor Soddu risponde alle famiglie nello stesso modo: ci sono macchinari, ci sono prove possibili, «stato vegetativo non vuol dire "basta", "fine". Questi pazienti devono essere ancora stimolati, su di loro devono essere costantemente effettuati test e approfondimenti». Le famiglie chiedono perché non succede, perché nel corso degli anni non è successo. Il professore arrivato dal Belgio scuote la testa: «Non lo so».
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