mercoledì 25 giugno 2025
Secondo Antigone gli Ipm soffrono per mancanza di personale, strutture strapiene e fatiscenti. Gli esperti: «I ragazzi non sono più violenti ma il sistema ha cambiato mentalità»
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Il fiore all’occhiello del sistema penitenziario italiano sta sfiorendo e «le carceri minorili si stanno trasformando in luoghi di abbandono». È questo l’allarme che per l’ennesima volta ha sollevato ieri l’associazione Antigone, insieme a Defence for Children e Libera e ribadito durante il recente convegno “La crisi della penalità minorile: cause profonde e strategie per il cambiamento” organizzato da Antigone Emilia-Romagna che dalla regione allarga lo sguardo e consegna uno spaccato nazionale dello stato degli istituti per minorenni (Ipm) oggi caratterizzati – esattamente come le carceri per adulti – da sovraffollamento, mancanza di personale e strutture fatiscenti.

Il caso simbolo è proprio l’Ipm Pratello di Bologna, da cui da tre mesi alcune decine di giovani adulti tra i 18 e i 25 anni sono stati trasferiti in una sezione della Dozza, il carcere per adulti della città, nonostante le perplessità degli addetti ai lavori. «Personalmente – sostiene Ettore Grenci, referente della Commissione diritti umani del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Bologna – avevo visitato l’istituto sette anni fa e l’avevo trovato ben messo. Qualche settimana fa invece Antigone lo ha trovato in condizioni fatiscenti…». E solo la denuncia dell’associazione ha smosso un po’ le cose, mobilitando una pulizia straordinaria e interventi di manutenzione urgenti con la sostituzione dei materassi. «Muri sporchi di cibo o di chissà cos’altro, colate di liquidi ripugnanti, bucce di banana, di mandarino, fili elettrici a vista strappati dal muro, involucri di ogni tipo che nessuno raccoglie, cicche di sigaretta, uno strato di nera polvere ovunque. Mancano spazi comuni, le celle sono inadeguate, i bagni intasati e c’è persino una stanza con una finestra senza vetro» spiega la presidente di Antigone Emilia-Romagna Giulia Fabini che ha visitato l’istituto insieme alla coordinatrice dell’associazione, Susanna Marietti. Una tragicità tutt’altro che eccezionale e che in modo simile si ripete – è l’opinione dei vari relatori – nel resto delle 17 strutture minorili italiane.

Nel 2024 le presenze negli Ipm sono passate da 400 a 600 e oggi gli istituti al collasso sono nove con Treviso che sfiora il doppio delle presenze e il Beccaria di Milano e l’Ipm di Quartucciu a Cagliari dove il tasso di sovraffollamento tocca addirittura quota 150%. «In molti territori, come il nostro, c’è difficoltà di un’alternativa perché mancano le comunità oppure ci si trova di fronte a difficoltà di collocamenti alternativi» spiega Nicola Palmiero, direttore del Centro per la giustizia minorile di Emilia-Romagna e Marche. Ma secondo il professore dell’Università di Milano Roberto Cornelli non si tratta soltanto di accidenti momentanei bensì di una precisa tendenza. Spiega il docente: «Il sistema penale minorile – normato dal Dpr 448 del 1998 – è stato un grande esperimento sociale teso a dimostrare che il carcere poteva essere solo l’estrema ratio. La sua nascita, in Italia, è stata resa possibile da uno sguardo sull’infanzia, nuovo all’epoca, che si è imposto nel Novecento, da una progressiva umanizzazione delle carceri e dalla consapevolezza dell’effetto criminogeno delle celle. Tutto ciò ha fatto sì che, alla fine degli anni Ottanta, la penalità minorile fosse regolata in un certo modo, con percorsi educativi che in parte rinunciavano alla punibilità nei confronti dei minori a favore della loro reintegrazione sociale».

Dagli anni Novanta si è assistito a una svolta punitiva sia dal punto di vista politico e normativo (con oltre trecento nuovi reati aggiunti negli ultimi trent’anni) sia culturale, che non ha risparmiato i minorenni. Anche se dal 2002 al 2023 c’è stata una riduzione decisa dei minorenni e giovani adulti segnalati all’autorità giudiziaria, il tema della devianza giovanile è diventato sempre più centrale. E gli Ipm sono tornati in campo come l’unica soluzione per correggerli. «I giornali parlano ogni giorno di baby gang – aggiunge Stefania Crocitti, ricercatrice dell’Università di Bologna che ha studiato il fenomeno anche con quaranta interviste in Emilia-Romagna – ma in realtà ci siamo resi conto che le pratiche di socializzazione più diffuse non sono riconducibili alla devianza. I gruppi di “ragazzi di strada”, che provengono dalle periferie, si incontrano nei parchi, negli spazi pubblici o nelle piazze, spesso anche nei centri delle città o fuori dai luoghi di divertimento. Stanno insieme con comportamenti che sono trasgressivi nel 12% dei casi e si trasformano in vere e proprie bande solo nel 6% tanto che le statistiche degli under 25 denunciati e arrestati in Italia parlano di numeri ben al di sotto della media europea e di un andamento decrescente o stabile tra le varie annate».

Il sovraffollamento avrebbe dunque altre ragioni. Secondo Grenci parte della responsabilità è la cancellazione dell’istituto della messa alla prova che sui minorenni ha sempre dato buoni risultati e che invece il decreto Caivano ha precluso per alcuni reati. «Il legislatore ha spostato l’attenzione sulla repressione più che sulla prevenzione e sulla finalità educativa: oggi si è passati dalla tutela del minore alla tutela dal minore».

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