lunedì 6 luglio 2020
La giovane cooperante per la prima volta ripercorre il cammino che da giovane "indifferente a Dio" l'ha portata a scoprire la fede
Silvia Romano dalla finestra di casa sua

Silvia Romano dalla finestra di casa sua - Ansa

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Il percorso che ha portato una ragazza «indifferente a Dio» a decidere di andare in missione in una zona insicura dell’Africa e poi, finita prigioniera di uno tra i più crudeli gruppi dell’estremismo islamico, ad abbracciare la stessa fede dei suoi carcerieri. È la prima volta che Silvia Romano, la cooperante milanese liberata lo scorso 9 maggio un anno e mezzo dopo il rapimento nel villaggio di Chakama, in Kenya, racconta nel dettaglio come è maturata la sua scelta di fede.

Lo fa in un’intervista a Davide Piccardo, a capo del Coordinamento delle associazioni islamiche di Milano (Caim), sul sito "La luce", da lui diretto. «Prima di essere rapita ero completamente indifferente a Dio, anzi potevo definirmi una persona non credente», esordisce Silvia Romano, che ha adottato il nome di Aisha, la moglie prediletta del Profeta, amata dai sunniti e detestata dagli sciiti. Nemmeno il volontariato era una vera vocazione, almeno fino alla tesi di laurea, quando la studentessa scoprì che voleva fare qualcosa per combattere le ingiustizie. «Ho sentito il bisogno di andare e mettermi in gioco aiutando l’altro nel concreto». Dell’islam ammette di aver avuto una idea vaga, anche qualche pregiudizio. Le prime domande Silvia se le pose subito dopo il rapimento, quando fu costretta a una dura marcia: «Iniziai a pensare: io sono venuta a fare volontariato, stavo facendo del bene, perché è successo questo a me? Qual è la mia colpa? È un caso o qualcuno lo ha deciso? Queste prime domande credo mi abbiano già avvicinato a Dio, inconsciamente. Ho iniziato da lì un percorso di ricerca interiore fatto di domande esistenziali». Nella prigione Silvia racconta di aver pensato che forse Dio la stava punendo per i suoi peccati, «perché non credevo in Lui, perché ero anni luce lontana da Lui».

Trasferita dal Kenya in Somalia, nella stanza di una prigione sentì il frastuono di un bombardamento. «In una situazione di terrore del genere e vicino alla morte iniziai a pregare Dio chiedendogli di salvarmi perché volevo rivedere la mia famiglia. Gli chiedevo un’altra possibilità perché avevo davvero paura di morire. Quella è stata la prima volta in cui mi sono rivolta a Lui». Molto si è detto e molte polemiche sono state sollevate dalla scelta di Silvia-Aisha. Qualcuno ha parlato sbrigativamente della "Sindrome di Stoccolma", che lega un prigioniero ai suoi carcerieri. Fatti salvi il valore di una scelta personale e la libertà di ognuno di credere, non credere e in che cosa credere, è ben nota la propensione al proselitismo dei movimenti radicali islamici. E tra tutti, gli Shabaab sono i più agguerriti e spietati. In ogni caso, Silvia ricevette un Corano: «Sentii subito che era un libro che guidava al bene». La 24enne racconta di averlo letto e riletto, «fino a quando ho abbracciato l’islam».

Da quel momento «guardavo al mio destino con serenità nell’anima». Quanto alla sua condizione attuale di italiana musulmana, tra le altre cose Silvia-Aisha spiega al quotidiano online delle Comunità islamiche milanesi che «sento dentro che Dio mi chiede di indossare il velo per elevare la mia dignità e il mio onore, perché coprendo il mio corpo so che una persona potrà vedere la mia anima». Rispetto per Silvia, nella consapevolezza però che la sua ricerca di senso, il suo percorso di fede difficilmente potevano prescindere dal contesto di sofferenza e di costrizione nel quale si trovava e che restano sempre misteriosi i modi con i quali Dio tocca il cuore di ognuno di noi.

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