domenica 5 dicembre 2010
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Il rumore arriva sordo alla cornetta del telefono. «Senti le catene? Ci hanno legato, come gli schiavi». La voce della ragazza eritrea, sequestrata in mezzo al deserto insieme ad altri 250 africani di varie nazionalità, arriva da uno dei due accampamenti scelti dai trafficanti di uomini per nascondere la loro vergogna: centinaia di uomini e donne africane, provenienti anche dall’Etiopia, dal Sudan e dalla Somalia, sono da settimane nelle mani di una banda senza scrupoli. Sognavano di arrivare in Occidente, invece sono in una delle tanti prigioni improvvisate nascoste intorno al Sinai. Sei di loro sono stati uccisi all’inizio di questa settimana, molti vengono torturati quotidianamente e sono in condizioni drammatiche. «Ora devo lasciarti, ricordati di mandare i soldi», è la frase più ricorrente che usano per troncare qualsiasi conversazione e "rassicurare" i loro aguzzini. Dall’altra parte del telefono, ci sono famiglie, soprattutto svizzere e svedesi, a cui viene chiesto un contributo economico. «Fai in fretta, altrimenti mi tolgono un rene». Sono i soldi del riscatto, l’unica cosa che interessa ai trafficanti di uomini del ventunesimo secolo: scovare chi, tra questa povera gente, ha parenti in Europa e con loro alzare la posta della liberazione. In Libia era di 2mila dollari mentre adesso, sulle alture del Sinai, il prezzo della libertà vale quattro volte tanto.«Hanno fiutato l’affare – spiega don Mosè Zerai, il sacerdote che dall’Italia sta dando voce alle vittime di questa vicenda – e lanciano ultimatum continui. Sono armati fino ai denti e probabilmente c’è qualcuno che li copre, all’interno di una zona non controllata». Sotto accusa, nelle ultime ore, è finito proprio il governo egiziano, a cui si sono rivolti nell’ordine la Farnesina, le organizzazioni delle Nazioni Unite che lavorano per i diritti umani e per i rifugiati, diverse Ong e le associazioni ecclesiali. «C’è una sostanziale inerzia da parte del Cairo» denuncia Matteo Pegoraro, copresidente del gruppo Everyone, una Ong che lavora nel campo dei diritti umani, che ha lanciato anche un appello all’Europa e ha chiesto il sostegno persino del Mossad israeliano, affinché aiuti le autorità locali nella cattura della banda.I profughi sono richiedenti asilo, in fuga perenne dalla loro terra, finiti in trappola prima in Libia, da dove sono successivamente scappati, e ora con il miraggio di arrivare in Israele, dove vorrebbero chiedere asilo politico. Ma la loro drammatica rincorsa, passata di trafficante in trafficante, di ricatto in ricatto, è divenuta ormai un caso internazionale. «Non è la prima volta che succede, ma è la prima volta che assistiamo a una deportazione di massa di queste proporzioni», è il monito duro di don Zerai. «Mai visto un traffico di esseri umani di queste dimensioni», conferma Laura Boldrini, portavoce dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Acnur), che parla di «un fiorente business per questi sfruttatori, ancora più spregiudicati da quando sanno che sono chiuse le rotte d’accesso all’Europa che arrivano via mare». I gruppi criminali sono da sempre in agguato e, quando ti muovi nelle terre di nessuno, diventa impossibile garantire protezione da parte degli Stati, in alcuni casi conniventi proprio con le stesse organizzazioni. «Speriamo che la mobilitazione in corso per la liberazione dia presto i suoi frutti» spiega don Zerai. Il tempo della vergogna (e delle catene) è già scaduto.
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