mercoledì 4 novembre 2020
La motivazione della sentenza del 21 ottobre. Le donne avevano ottenuto il bimbo all'estero con la fecondazione assistita, ma non è incostituzionale impedire la registrazione come entrambe madri
Una madre con due bambini

Una madre con due bambini - Fotogramma

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Due donne, che hanno ottenuto un bimbo all’estero con la fecondazione eterologa, non hanno diritto a essere riconosciute entrambe “mamme” dalla legge italiana. O meglio: le norme che impediscono ciò non sono contrarie alla Costituzione.

Lo scorso 21 ottobre, la Consulta aveva anticipato questa sua decisione in un comunicato stampa. E oggi ha depositato la sentenza 230/2020 con le motivazioni complete. “L’aspirazione della madre intenzionale ad essere genitore – vi si legge – non assurge a livello di diritto fondamentale della persona”, e per questo il suo mancato riconoscimento non viola l’articolo 2 della Costituzione.

Contestualmente, sempre in caso di mancato riconoscimento, non è disatteso nemmeno l’articolo 30, poiché le tecniche di procreazione medicalmente assistita “aprono scenari affatto innovativi – e qui la Corte richiama la sua sentenza 221/2019, ribadendone la validità - rispetto ai paradigmi della genitorialità e della famiglia storicamente radicati nella cultura sociale, attorno ai quali è evidentemente costruita la disciplina degli artt. 29,30 e 31 Cost.”.

Altro passo importante della pronuncia di oggi è quello per cui non esiste alcun obbligo di “allineare” la nostra legge a quella d’oltreconfine, perché l’effetto, in tal caso, sarebbe potenzialmente quello di introdurre nel nostro Paese la “più permissiva tra le legislazioni estere che regolano la stessa materia”.

In questo caso, quella sulla procreazione medicalmente assistita. In definitiva, dunque, la Consulta chiarisce che il riconoscimento della filiazione omogenitoriale non è “raggiungibile attraverso il sindacato di costituzionalità della disposizione di segno opposto”, ma solo con una eventuale “svolta” legislativa, che rimane tuttavia “non [...] costituzionalmente imposta”. Vale a dire che non vi è nessuna ragione superiore perché il Parlamento modifichi la normativa vigente, e la prova di ciò è data dal fatto che la Corte - nella sentenza di oggi - omette qualsiasi invito in tal senso all’organo legislativo.

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