giovedì 23 gennaio 2014
Il lento declino di un’istituzione che ha segnato la storia d’Italia. Previsto dallo statuto albertino con membri di nomina regia. Sui suoi banchi Manzoni, Verdi, Verga, Gentile, Croce, Marconi. Il duce lo detestava, ma non potè abolirlo.
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Sembra arrivata la fine del Senato così come lo abbiamo conosciuto dal 1948 a oggi. Il patto Renzi-Berlusconi si regge infatti anche sulla trasformazione del Senato elettivo in una Camera delle Regioni, rappresentativa delle realtà territoriali. L’idea è di mandare a Palazzo Madama i presidenti delle Regioni e i sindaci delle grandi città, senza più elezione diretta. Inoltre la seconda Camera perderebbe il potere di dare la fiducia (e la sfiducia) al governo. Il segretario del Pd l’ha messa soprattutto sul piano del risparmio. Per i nuovi senatori, infatti, non sarebbero previste indennità aggiuntive rispetto a quelle già percepite come amministratori. Restano però da stabilire particolari molto delicati dal punto di vista costituzionale: la nuova ripartizione del processo legislativo, i poteri di garanzia della seconda Camera rispetto alle leggi costituzionali e a quelle che riguardano i diritti fondamentali delle persone, la partecipazione all’elezione del capo dello Stato e delle alte magistrature. Né ancora è chiaro che fine faranno i senatori a vitaUna furia iconoclasta sta per abbattersi, per effetto del patto Renzi-Berlusconi, sul Senato della Repubblica, una istituzione prestigiosa, che affonda le radici in una storia plurimillenaria. Il Senato fu fondato, secondo la tradizione, dallo stesso Romolo e accompagnò con fortune alterne tutto il cammino dell’Urbe, dalla monarchia all’impero.Per avere un Senato a grandi linee simile a quello attuale, bisognerà aspettare lo Statuto albertino del 1948 che prevedeva, oltre a una Camera elettiva, il Senato del Regno, secondo un modello bicamerale replicato nello Stato unitario. Il Senato regio era composto da personalità del mondo della politica, della cultura, della nobiltà, degli alti gradi militari, della magistratura, nominati dal re (ma molto spesso caldeggiati dal governo).E ospitò sui suoi seggi lignei il meglio dell’Italia: basti pensare a don Lisander Manzoni, Giuseppe Verdi, Arrigo Boito, Guglielmo Marconi, Antonio Fogazzaro, Giovanni Verga, Benedetto Croce, Giovanni Gentile, Giosuè Carducci e agli industriali Agnelli, Falck, Borletti e Borsalino.Il fascismo riuscì prima a svuotare poi ad abolire l’odiata Camera dei Deputati ma, per deferenza verso il re, dovette a malincuore risparmiare il Senato. I senatori gli furono molto grati. A Palazzo Madama non si ricordano infatti particolari forme di resistenza durante il ventennio, con qualche timida eccezione. Certo è che appena si verificò lo strappo dell’8 settembre, una delle prime leggi che Mussolini fece approvare dalla Rsi fu l’abolizione tout court del Senato.Finita la guerra, i partiti democratici confermarono l’abolizione del Senato di nomina regia. Ma il tema della seconda Camera tenne banco a lungo durante i lavori della Costituente. Alcuni la pensavano neocorporativa, costituita da rappresentanze di categorie sociali. Altri guardavano a una di Camera espressione delle realtà territoriali. Comunisti e socialisti erano invece rigidamente monocameralisti. L’inevitabile compromesso portò a creare due Camere fotocopia, con pari poteri da un punto di vista della legislazione. Differivano per composizione (315 senatori e 630 deputati), per il sistema elettorale (i collegi uninominali e le preferenze) e per l’età dell’elettorato attivo e passivo.Nella prima Repubblica il Senato ha svolto con dignità e il suo ruolo di Camera alta. I partiti tendevano a designare per il Senato esponenti di prestigio del mondo della cultura, professori, intellettuali. E anche i dibattiti nella "bomboniera" di Palazzo Madama erano – rispetto alla caotica trincea della Camera – più sobri, più aulici e meno virulenti. Il Paese conobbe una serie di presidenti di altissimo livello, decisi a pesare nella politica italiana: Merzagora, Fanfani, Spadolini, Malagodi, Morlino, Vittorino Colombo e Cossiga. Quest’ultimo fu l’unico dei presidenti del Senato a diventare capo dello Stato. Un’eccezione a fronte di numerosi presidenti della Camera (Gronchi, Saragat, Leone, Pertini, Scalfaro, Napolitano) saliti al Quirinale. Perché in realtà – a parte gli aneddoti delle rivalità tra i presidenti delle due Camere, iniziate con De Nicola-Gronchi – il Senato è stato sempre antipatico ai molto più numerosi "cugini" della Camera. Un po’ per l’aria snob che si respira da sempre nelle sale antiche di Palazzo Madama, un po’ perché il Senato con la metà dei seggi e del personale riusciva a fare esattamente (e talvolta anche meglio) il lavoro della Camera, mettendone in mora l’elefantiaca organizzazione.Con l’avvento della Seconda Repubblica e le nuove leggi elettorali il Senato ha finito via via per perdere le sue caratteristiche di Camera di riflessione e di garanzia, diventando terreno di scontro non meno della Camera. Basti pensare allo sfoggio di mortadella e champagne in aula dopo la caduta del governo Prodi o alla gazzarra per l’elezione alla presidenza di Franco Marini. Fino alla durissima contestazione, al limite dello scherno, dei senatori a vita. Da qui la sua progressiva nomea, non sempre giustificata, di Camera aggiuntiva, di doppione che rallenta la decisione politica e infine – per venire ad oggi – di organo che contribuisce al livello inaccettabile di spese per la politica. L’anticamera, insomma, della sua liquidazione.L’assurdità di quel farraginoso processo legislativo – per cui una legge ordinaria deve essere approvata in fotocopia da una Camera e poi dall’altra – non era sfuggita negli anni ai senatori più illuminati. Basti pensare che un progetto di legge costituzionale, ispirato dai democristiani Leopoldo Elia e Nicola Mancino, riuscì a passare nel lontano 1990 il primo vaglio del Senato. Esso prevedeva il cosiddetto bicameralismo funzionale: le leggi ordinarie venivano approvate o dalla Camera o dal Senato con una sola lettura. L’altra Camera poteva eventualmente richiederne, a larga maggioranza, l’esame. Sembrava l’uovo di colombo. Se fosse stata approvata ci saremmo risparmiati decenni di "navette" tra Montecitorio e Palazzo Madama. Ma la legge Elia fu affondata da Bettino Craxi in persona. Il leader socialista voleva la grande e rivoluzionaria riforma semipresidenzialista, con la Camera delle Regioni. La grande riforma non si fece. E, come spesso accade in Italia, nemmeno la piccola.
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