sabato 26 febbraio 2011
Costretti a lavorare come bestie, malpagati e minacciati, alcuni extracomunitari hanno trovato il coraggio di ribellarsi. La zona è quella di Corigliano Calabro, nel Cosentino, dove la criminalità organizzata è potente. Rimane aperta la piaga del «caporalato».
- I veri schiavi di Francesco Riccardi
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Li costringeva a lavorare come bestie, minacciandoli e malpagandoli, facendo leva sul suo potere di «uomo di rispetto» e sulla loro debolezza d’immigrati bisognosi di guadagnare per sopravvivere. Ma la dignità non ha prezzo, soprattutto quand’è abbinata al coraggio. Così, dopo l’ennesima giornata passata a spaccarsi la schiena e a subire soprusi d’ogni genere, alcuni braccianti di nazionalità indiana e pachistana hanno deciso di spezzare questa spirale senza uscita, recandosi nella caserma della Guardia di Finanza per denunciare il loro «datore di lavoro»: A.G., 32 anni, di Corigliano Calabro, nel Cosentino, già noto alle forze dell’ordine poiché considerato esponente della potente criminalità organizzata della zona.Le fiamme gialle hanno fatto scattare le indagini con controlli, appostamenti e verifiche incrociate, cristallizzando le responsabilità dell’imprenditore che ieri è stato denunciato a piede libero per sfruttamento di manodopera in nero, riduzione in schiavitù, truffa, appropriazione indebita e caporalato. E non è finita, perché gli sono contestate pure una serie di violazioni amministrative. I finanzieri della tenenza coriglianese, coordinati dalla Procura della Repubblica di Rossano, hanno appurato che il trentaduenne era riuscito praticamente a schiavizzare diciassette persone, obbligandole per oltre due mesi a turni di lavoro devastanti, anche in giornate di pioggia battente, vento e freddo gelido. Non contento, per aumentare ulteriormente il suo potere ricattatorio, tratteneva gran parte dei salari. E se le vittime si azzardavano a protestare, dovevano subire minacce e violenze tanto fisiche quanto psicologiche.Questo drammatico racconto di caporalato e sfruttamento, venuto alla luce esclusivamente grazie alla coraggiosa denuncia di questi schiavi del terzo millennio, conferma la drammatica realtà che cova sotto la cenere dell’imprenditoria rurale nella Piana di Sibari, polmone agricolo fondamentale per l’economia di tutta la Calabria. Diverse inchieste giudiziarie, alcune della Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro, hanno portato a galla situazioni di soprusi indicibili per le migliaia di immigrati, non solo africani ma anche provenienti da nazioni dell’ex impero sovietico, richiamati nella Sibaritide dalle occasioni di lavoro anzitutto in agricoltura. Una forma di sfruttamento legalizzato sono le cooperative create ad hoc per impiegare i braccianti, e spesso protagoniste pure d’inchieste per violazioni fiscali. Ma il fenomeno valica spesso i confini agricoli, estendendosi ad altri settori. Nell’ambito della stessa inchiesta, a esempio, i finanzieri coriglianesi hanno scoperto non solo un’altra azienda agricola di Corigliano che utilizzava tre rumeni in nero, anch’essi vessati e non pagati per adeguatamente per il lavoro prestato, ma anche un supermercato con nove impiegati in nero e tre irregolari sui ventidue complessivamente identificati.In questo quadro a tinte fosche tra bisogno e sfruttamento criminale, non possono essere dimenticate le centinaia di giovani donne che ogni giorno vendono il proprio corpo sulle strade del comprensorio, anche arterie importanti e molto trafficate, sfruttate dai clan della ’ndrangheta cui garantiscono guadagni da capogiro.
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