giovedì 28 agosto 2014
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Nei manuali di storia è ancora Mesopotamia, nei telegiornali è Iraq, Siria, più di recente il Califfato. Per Giorgio Buccellati è «il Paese delle Quattro Rive», dove è tutto cominciato e dove tutto potrebbe finire. «Questa regione del mondo, che oggi sembra condannata a una condizione periferica, riveste da 15mila anni un ruolo del tutto centrale nella storia della civiltà – dice –. È un paradosso, un tragico paradosso». Al Meeting Buccellati gode di una popolarità singolare per un studioso del suo calibro: lo riconoscono, lo fermano, gli chiedono di autografare copie del catalogo che accompagna la mostra da lui curata per l’edizione di quest’anno (“Dal profondo del tempo: all’origine della comunicazione e della comunità nell’antica Siria“). «Noi archeologi siamo avvantaggiati - minimizza -, lavoriamo su oggetti che hanno un impatto immediato sul pubblico. Ma questo comporta anche una grande responsabilità». Professore emerito all’Università della California a Los Angeles, dove ancora opera in collaborazione con la moglie Marilyn Kelly-Buccellati, lo studioso italiano ha legato il suo nome ai ritrovamenti di Urkesh, l’attuale Tell Mozan, in Siria. «Ho voluto portare a Rimini le immagini degli operatori locali che, istruiti da noi negli anni scorsi, continuano a svolgere un prezioso lavoro di conservazione. Con strumenti poveri, ma non per questo meno efficaci. E con enorme coraggio». Che cosa si rischia di perdere, in questo momento? Vite umane, anzitutto: non dobbiamo mai dimenticarlo. Per quanto riguarda il patrimonio archeologico, invece, a preoccuparmi maggiormente non è tanto la sorte dei reperti, quanto le motivazioni che sono all’origine del saccheggio e della distruzione. C’è una perdita di consapevolezza della propria identità che si trasforma in volontà di aggredire l’altro, cancellandone la dignità. Non si tratta di un fenomeno nuovo, purtroppo. Dal 2001, quando i talebani fecero saltare in aria le statue monumentali dei Buddha a Bamyan, in Afghanistan, gli episodi di questo genere si sono fatti sempre più frequenti». Ed è questo che chiama in causa voi studiosi? Sì, ma vorrei mettere in guardia rispetto all’atteggiamento sostanzialmente colonialista degli intellettuali occidentali. Si è diffusa la convinzione che un Paese come la Siria non disponga di competenze adeguate per proteggere il proprio patrimonio. Bene, questo è falso. Il Direttorato delle Antichità siriano sta vivendo, al contrario, una stagione gloriosa, che dovrebbe essere presa ad esempio da tutto il mondo. Una corrente di dedizione e coraggio che va dai massimi dirigenti fino all’ultimo dei custodi, che continua a svolgere il proprio compito affrontando tremende difficoltà e mettendo in pericolo la stessa vita. E sa qual è il fatto sorprendente?» Quale? Userò le parole di una studentessa siriana venuta a Rimini per portare la sua testimonianza nell’ambito della nostra mostra. «Voi parlate di coraggio», ha detto, «ma questo per noi non è coraggio, è quello che facciamo normalmente ogni giorno». Si dice che il traffico di reperti archeologici sia uno dei canali di finanziamento dell’Is… Senza dubbio, e questo è uno dei motivi per cui l’Unesco si è mobilitata per limitare il mercato clandestino. I risultati, finora, non sono molto incoraggianti. Da un lato, infatti, si riesce a raggiungere e neutralizzare solo una parte dei potenziali clienti, dall’altro ci sono persone disposte a spendere una fortuna pur di entrare in possesso di un oggetto antico. Che cosa abbiamo ereditato dal Paese delle Quattro Rive? La scoperta della dimensione spirituale e il formarsi dello Stato, il paesaggio interiore della letteratura e l’arte, intesa come capacità di segnare un limite e, nello stesso tempo, di superarlo. Non le sembrano buoni motivi per impedire che tutto questo vada perduto?
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