domenica 28 agosto 2022
Per il direttore del Dipartimento di Salute mentale Asl Roma1, Giuseppe Ducci, «serve una responsabilizzazione dell’intera società verso le persone fragili»
«Salute mentale, emergenza sociale. Un'alleanza in aiuto delle famiglie»
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«Occorre che tutta la società si senta coinvolta nella cura delle persone con disturbi psichici: i Servizi di salute mentale devono collaborare con le famiglie, ma giocano un ruolo anche gli altri ambiti sociali, dalla scuola al lavoro». È l’opinione di Giuseppe Ducci, direttore del Dipartimento di salute mentale (Dsm) della Asl Roma 1, che opera su un vasto territorio della Capitale (oltre un milione di abitanti) e ha in carico quasi 23mila utenti, potendo contare su circa 830 operatori complessivamente. E spiega: «È solo nell’alleanza terapeutica e nella responsabilità sociale condivisa che si trovano le risposte di presa in carico di chi soffre di patologie psichiche ». Senza trascurare i rischi dell’attuale comunicazione digitale e via social: «Si elimina la sintonizzazione emotiva tra individui».

Molte famiglie lamentano di non trovare risposte sufficienti alle necessità di cura dei loro congiunti. Forse non tutti i Dsm sono attrezzati come il suo?
La media qualitativa dei Dsm in Italia è oggi abbastanza alta, per quanto siano molto provati dal mancato ricambio del personale. In media sono presenti e prossimi, dislocati sul territorio, e capaci di esercitare una presa in carico continuativa. È chiaro tra tante persone, può capitare di trovarne una non all’altezza, ma è sempre opportuno ragionare sui grandi numeri, non sui singoli casi, che fanno notizia, perché non sono la regola.

Eppure molte famiglie lamentano di essersi trovate sole a gestire disturbi che rendono difficile la convivenza. Come si può aiutarle?
Ci muoviamo in un contesto normativo molto chiaro, dettato dall’articolo 32 della Costituzione: ogni trattamento sanitario è volontario, con le eccezioni di legge. Ma il trattamento sanitario obbligatorio ( Tso) è limitato ad alcuni casi e per un periodo di tempo limitato. Altrimenti ci deve essere il consenso della persona. Noi al Dsm cerchiamo di costruire un’alleanza terapeutica con persone che – per effetto del loro disturbo – non hanno una disponibilità alla collaborazione molto chiara.

Ma quando intervengono comportamenti sanzionati penalmente?
Qualora una persona commetta un reato, vengono valutate la sua capacità di intendere e di volere e la sua pericolosità sociale. Con la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari (Opg) stiamo assistendo a un ampliamento dell’indicazione di mancata capacità di intendere e di volere: tante persone che prima finivano in carcere, per il fatto che non esiste più l’Opg, vengono giudicate incapaci di intendere e affidate ai servizi.

Devono però essere anche pericolose socialmente?
Certo. Se uno viene seguito per un disturbo bipolare, non ha necessariamente una pericolosità sociale. Così come l’Adhd (il disturbo da deficit di attenzione e iperattività) non limita la capacità di intendere e volere. Il principio fondamentale è che nessuno può essere messo in un luogo contro la sua volontà. E anche nelle Rems si può stare per un periodo non superiore a quello previsto dalla pena edittale per il reato commesso. In Italia in totale sono 1.200 persone, ma l’intera società ha un ruolo nella cura di queste persone.

Giuseppe Ducci

In che senso?
Serve una responsabilizzazione dell’intera società verso persone, che possono essere potenzialmente aggressive: occorre lavorare sulla costruzione di legami sociali, amicali, affettivi e anche sanitari, che permettono a queste persone di non esprimere la componente violenta. Purtroppo osserviamo che la società è tendenzialmente espulsiva e discriminante, lo vediamo anche sui social network, ma nessuno può chiamarsi fuori: i Servizi di salute mentale, ovviamente, ma anche le famiglie, la scuola, il lavoro.

Perché i social network sono così pieni di comportamenti aggressivi?
Ci occupiamo molto del cyberbullismo negli adolescenti. Quando scrivo sui social, non vedo la reazione dell’altra persona, quindi non entro in empatia con l’altro. Nella realtà (a meno di essere un grave psicopatico) se insulto qualcuno, vedo la sua reazione, che mi induce a modulare il mio atteggiamento, a chiedere scusa, ad attenuare. Ma se non vedo la reazione, si scrive di tutto. L’uso della comunicazione digitale ha eliminato la componente di sintonizzazione emotiva che caratterizza ogni interazione, anche aggressiva. L’abuso dei social (che talora finisce nel cyber-bullismo) comporta cambiamenti della struttura cerebrale, e del modo in cui interagiamo con il mondo: un tratto che caratterizza le nuove generazioni. Io mi occupo in particolare di adolescenti: il problema è che sono sempre connessi, ma in realtà sono profondamente disconnessi sul piano emotivo e affettivo gli uni con gli altri. Il lockdown e la Dad hanno rappresentato un problema enorme perché hanno limitato ancora di più le possibilità di interazione diretta che la scuola offre, all’interno di un contesto normato, lasciando libertà assoluta ai contatti via Internet con un aumento enorme dei contatti, ma senza alcuna capacità di sviluppare una sintonizzazione emotiva e affettiva, che è l’unico modo con il quale modulo e regolo il mio comportamento e i miei impulsi.

Le famiglie segnalano spesso di non essere sufficientemente prese sul serio, e che le risorse (anche umane) siano insufficienti. Come ovviare?
Rispetto alla patologia mentale, bisogna evitare le generalizzazioni: ci sono situazioni estremamente diverse, non solo tra disturbo e disturbo, ma anche all’interno della stessa patologia. Quindi non c’è una sola soluzione che va bene per tutti. Dobbiamo chiedere con forza che i Servizi pubblici garantiscano una presa in carico globale del paziente (anche sul piano dei bisogni economici), ma anche dei familiari perché sono persone sofferenti, e non possono essere lasciati da soli. Noi realizziamo gruppi multifamiliari, gruppi di ascolto, gruppi psicoeducazionali. La salute mentale è l’unico ambito della sanità, in cui non esistono viaggi della speranza: serve un servizio locale, organizzato e capace di fornire risposte multidisciplinari. Questo è l’unico modo per rispondere ai bisogni delle famiglie con paziente psichico. Ma bisogna anche respingere l’idea che al Servizio di salute mentale possa essere delegato in toto il paziente: la collaborazione dei familiari va costruita, ma tenendo presente che in ogni caso sono attori del processo, con la scuola e dei contesti lavorativi. E anche con la collaborazione del Terzo settore: abbiamo sviluppato una rete di case, non strutture sanitarie, dove le persone vivono e sono da noi assistite, in collaborazione con enti come la Caritas. La migliore risposta possibile è quando tutta la società si attiva: i progetti che funzionano meglio sono quelli in cui manteniamo la persona nel suo contesto, senza essere distruttivo e disturbante, e al tempo stesso facendo sì che il contesto non lo discrimini.

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